Ancora sangue a Rafah. Ancora civili sotto tiro mentre cercano solo di sopravvivere. Almeno 39 persone sono morte, oltre 220 sono rimaste ferite in una nuova strage davanti a un centro di distribuzione umanitaria nella città meridionale della Striscia di Gaza. L’attacco, attribuito all’esercito israeliano, è avvenuto nei pressi di un sito della Gaza Humanitarian Foundation. L’esercito nega: “Non ne sappiamo nulla”. È solo l’ultimo episodio in una giornata segnata da raid, proteste e tensioni diplomatiche. Il bilancio si aggrava di ora in ora: 31 i morti confermati da Al Jazeera solo a Rafah, mentre altre vittime si contano in altri centri vicini. I feriti superano i 120. Secondo testimoni e operatori della Croce Rossa, le vittime stavano accedendo agli aiuti distribuiti da una fondazione sostenuta anche da Israele. Tra le accuse e le smentite, la realtà resta drammatica. “Sembrava una trappola mortale più che un punto di soccorso”, ha denunciato il governo di Gaza, parlando di “uso sistematico e doloso degli aiuti come strumento di guerra”.
“Non respingiamo la tregua, ma l’America è di parte”
Nel frattempo, si arena la difficile trattativa sul cessate il fuoco. Hamas ha presentato una controproposta che includeva un armistizio di sette anni, molto più lungo dei 60 giorni previsti dalla bozza americana. Per Washington, è “inaccettabile”. L’inviato speciale USA Steve Witkoff ha ricevuto pressioni da tutti i fronti: Hamas accusa la sua posizione di essere “del tutto parziale” a favore di Israele, mentre Stati Uniti, Egitto e Qatar continuano a fare pressione sui vertici del movimento islamista affinché rivedano la proposta. “Hamas non ha respinto l’accordo”, ha dichiarato Basem Naim a Reuters, “ma la risposta di Israele non era compatibile con i termini discussi. L’approccio americano non è imparziale”.
Il padre di Adam non ce l’ha fatta
Tra le vittime indirette della guerra c’è anche Hamdi Al-Najjar, padre di Adam, unico sopravvissuto dei suoi dieci figli. L’uomo è morto ieri in ospedale per le ferite riportate nel raid del 24 maggio su Khan Younis. Durante quell’attacco, erano stati uccisi nove dei suoi figli. Sua moglie, la dottoressa Alaa Al-Najjar, era in servizio in ospedale al momento del bombardamento. Una tragedia simbolo di un conflitto che, giorno dopo giorno, cancella famiglie intere.
Crosetto: “Netanyahu si fermi”
La situazione umanitaria spinge anche esponenti politici a rompere il silenzio. Il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, in un’intervista a la Repubblica ha dichiarato che “Netanyahu deve fermarsi. Le ragioni militari delle operazioni a Gaza sono terminate da mesi. Continuare significa solo alimentare odio”. Crosetto ha affermato che Hamas deve essere combattuta, “ma non con questi metodi. I civili non possono più essere considerati danni collaterali”. A sorpresa, Crosetto ha aperto anche alla possibilità di partecipare alla manifestazione per Gaza prevista il 7 giugno: “Non avrei difficoltà ad andarci. Per manifestare per ogni civile, donna o bambino ucciso. Ma temo che molti in piazza non saranno lì per la pace, ma per odiare”.
Gaza senza più controllo: clan armati sfidano Hamas
Sul terreno, la tenuta del potere di Hamas è messa a dura prova. Secondo fonti militari israeliane, nella Striscia stanno emergendo clan armati che agiscono come milizie autonome. Saccheggiano magazzini, sequestrano aiuti, sparano per difendersi anche da Hamas. Gruppi come il clan Abu Shabab o il clan Dughmush – già noto per il rapimento del caporale Gilad Shalit – si stanno espandendo grazie all’assenza di controllo e all’economia sotterranea fatta di traffici dal Sinai. Alcuni di questi clan, secondo fonti palestinesi, collaborano con le forze israeliane. Ma in molti casi il loro unico obiettivo sembra essere il potere locale, più che l’ideologia. Una guerra nella guerra, che trasforma la crisi di Gaza in un conflitto interno diffuso.