Nel 2025 il Prodotto interno lordo dell’Italia è destinato a toccare i 2.244 miliardi di euro, secondo un’elaborazione dell’Ufficio studi della Cgia su dati Prometeia e Istat. In numeri, ciò significa che il nostro Paese produrrà ogni giorno poco più di 6 miliardi di euro di reddito. Includendo bambini e anziani, il reddito pro capite giornaliero si attesta mediamente a 104 euro. La distribuzione della ricchezza, però, presenta forti disomogeneità a livello territoriale. Milano guida la classifica provinciale con 184,9 euro al giorno per abitante, seguita da Bolzano (154,1), Bologna (127,6), Roma (122) e Modena (121,3). In fondo alla graduatoria troviamo Sud Sardegna (50,8), Cosenza (50,7) e Barletta-Andria-Trani (50,6).
Il 2025 ci vedrà lavorare 251 giorni, due in meno rispetto al 2024, anno bisestile. Una riduzione che si tradurrà, teoricamente, in una perdita di circa 12 miliardi di euro di Pil, paragonabile ai danni economici che potrebbero derivare dall’introduzione di nuovi dazi statunitensi. Nonostante questo, secondo l’Ocse, gli italiani continuano a essere tra i lavoratori più indefessi d’Europa: con 1.734 ore lavorate annue per occupato, siamo dietro solo a Grecia, Polonia, Repubblica Ceca ed Estonia.
Una settimana di lavoro in più varrebbe un punto di Pil
Va però sottolineato che, sebbene il monte ore lavorate sia elevato, il nostro tasso di occupazione rimane tra i più bassi dell’Unione europea, sintomo di un mercato del lavoro ancora fragile. Le lunghe pause tra Pasqua e il 1° maggio rallentano fortemente la produzione nei comparti manifatturieri e nei servizi. Se si riuscisse a recuperare una settimana di lavoro all’anno, tra ponti e festività, secondo la Cgia potremmo guadagnare un punto percentuale di Pil, ovvero circa 22 miliardi di euro.
Negli anni ‘70, proprio per contrastare gli effetti negativi delle troppe festività sul sistema produttivo, il governo Andreotti III abolì alcune feste religiose. Tentativi successivi, anche sotto Berlusconi e Monti, non sono mai arrivati a soluzioni definitive.
Nordest locomotiva del Paese
Dall’analisi territoriale emerge che delle prime 20 province per valore aggiunto giornaliero per abitante, ben 13 si trovano nel Nordest. Tra queste, oltre a Bolzano e Bologna, troviamo Modena, Trento, Parma, Vicenza, Trieste, Padova e Verona. Un dato che conferma la vitalità economica delle aree dove la presenza delle piccole e medie imprese (Pmi) è più diffusa. La Lombardia, con Milano in testa, continua comunque a rappresentare un motore insostituibile dell’economia nazionale.
L’Italia non è più il Paese delle grandi imprese che dominavano la scena internazionale fino agli anni ’80. Oggi il tessuto produttivo è caratterizzato principalmente da micro, piccole e medie imprese. Una struttura che da un lato ha garantito resilienza, capacità di adattamento e successo nel Made in Italy, dall’altro ha portato a livelli di produttività più bassi, retribuzioni contenute e minori investimenti in ricerca e sviluppo.
Forza e debolezza
Negli ultimi decenni, mentre in altri Paesi europei i salari aumentavano, in Italia la crescita delle retribuzioni è rimasta stagnante. La caduta del muro di Berlino, la globalizzazione e le inchieste di ‘Tangentopoli’ hanno radicalmente cambiato il nostro panorama industriale, sancendo il declino di molte grandi realtà pubbliche e private.