Secondo l’ultima indagine dell’Osservatorio BenEssere Felicità, realizzata con il supporto tecnico di Up Day, in Italia si registra un lieve calo della felicità sul lavoro rispetto all’anno precedente. Se nel 2024 il livello medio di soddisfazione lavorativa si attestava su 3.24 punti su 5, quest’anno la media è scesa a 3.09. Un calo leggero, ma significativo, che suggerisce un clima meno positivo tra i lavoratori.
Chi è stato ascoltato
La ricerca, basata su un campione di 1.000 persone rappresentative della popolazione attiva italiana, mostra come siano le donne a dichiararsi leggermente più felici degli uomini rispetto al proprio lavoro (3.28 contro 3.23). Tra le diverse fasce d’età, sono i più giovani, cioè la cosiddetta Generazione Z (i nati tra la metà degli anni ’90 e i primi anni 2010), a esprimere la maggiore soddisfazione, con un punteggio medio di 3.34. Seguono da vicino i Baby Boomers, ovvero chi è nato tra il 1946 e il 1964, con 3.31. I Millennials, cioè coloro che sono nati tra il 1981 e il 1996, si fermano a 3.27, mentre la Generazione X (nata tra il 1965 e il 1980) è quella che riporta il dato più basso, 3.21.
Stipendio e fedeltà al lavoro
Anche il desiderio di cambiare lavoro mostra un leggero rallentamento rispetto allo scorso anno. La cosiddetta “Great Resignation” — termine con cui si indica il fenomeno delle dimissioni volontarie di massa, nato negli Stati Uniti e poi osservato anche in Italia — sembra perdere un po’ di slancio. Se nel 2024 il 55% degli intervistati dichiarava di non voler cambiare lavoro nei successivi 12 mesi, quest’anno la percentuale sale al 59,9%. Resta stabile, invece, al 24% la quota di chi vorrebbe cambiare azienda, ma cala al 17% (dal 21%) chi pensa di cambiare completamente mestiere.
Quando si chiede cosa spinga le persone a valutare un nuovo lavoro, la risposta è chiara: lo stipendio. Il 48% degli intervistati lo considera la motivazione principale, in aumento rispetto al 42% dello scorso anno. Decisamente meno importanti risultano la flessibilità lavorativa, che si ferma al 22%, e le opportunità di carriera, al 21%. Solo il 13% cita un welfare aziendale migliore come fattore decisivo, in calo rispetto al 17% dell’anno precedente. Lavorare per un’azienda con un marchio noto continua a essere l’ultima delle priorità.
Più felici? Autonomi e laureati
Dall’indagine emerge anche che i lavoratori autonomi, come liberi professionisti o freelance, sono generalmente più soddisfatti del proprio lavoro rispetto a chi è dipendente: 3.40 punti contro 3.22. Anche il livello di istruzione sembra incidere sulla percezione di felicità: chi ha un titolo di studio universitario dichiara una media di soddisfazione di 3.33, mentre chi non ha una laurea si ferma a 3.21.
Il welfare conta, ma non è tutto
Una delle domande chiave dell’indagine riguarda l’influenza del welfare aziendale sulla felicità delle persone in azienda. Con “welfare aziendale” si intendono quei servizi e benefici che un’azienda può offrire ai propri dipendenti per migliorare la qualità della vita dentro e fuori il lavoro. Possono includere, ad esempio, buoni pasto, assistenza sanitaria integrativa, flessibilità oraria, supporto alla genitorialità o programmi per chi si prende cura di familiari non autosufficienti (caregiving).
Il 60% degli intervistati ritiene che questi strumenti incidano molto o moltissimo sulla felicità lavorativa. In media, uomini e donne sono d’accordo, con punteggi simili (3.59 e 3.58). I Millennials sembrano i più convinti del valore del welfare (3.66), seguiti dai Baby Boomers (3.61), dalla Generazione Z (3.57) e dalla Generazione X (3.53).
A livello geografico, sono gli abitanti del Sud e delle Isole a credere di più nell’importanza del welfare aziendale, con una media di 3.71, seguiti dal Nord-Ovest (3.56), dal Nord-Est (3.52) e infine dal Centro Italia (3.50).
Una nuova idea
Marianna Bertolini, Vicepresidente di Up Day e Direttrice per l’area Euromed, ha commentato i risultati spiegando che “emerge un disincanto forse dovuto anche alle eccessive aspettative in un welfare erogato dalle aziende, che non può competere o sostituirsi al welfare pubblico”. A titolo di confronto, Bertolini ricorda che nel 2022 la spesa pubblica per il welfare in Italia era pari a circa 650 miliardi di euro, contro i circa 3 miliardi del welfare privato.
Secondo Bertolini, spesso si tende a ridurre il welfare aziendale a una serie di benefit materiali, come buoni pasto o buoni carburante. Ma per essere davvero efficace, il welfare dovrebbe evolversi e rispondere ai bisogni reali delle persone, accompagnandole lungo le diverse fasi della vita, promuovendo la flessibilità, valorizzando l’unicità dei singoli e offrendo programmi di sostegno alla genitorialità e al caregiving.
Molte aziende ancora indietro
Nonostante l’importanza attribuita al welfare, una parte significativa dei lavoratori lamenta una mancanza di iniziative reali nelle proprie aziende. Il 18% degli intervistati afferma che la propria organizzazione non offre alcun tipo di servizio di welfare. Solo il 13% dichiara che nella propria azienda esistono programmi specifici a sostegno della genitorialità, mentre appena il 10% segnala iniziative rivolte a chi si prende cura di familiari anziani o non autosufficienti.
Anche Elisabetta Dallavalle, Presidente dell’Associazione Ricerca Felicità, riflette su questi dati sottolineando che “i servizi di welfare sono parte del benessere in azienda per il 45% degli italiani, ma solo il 34% li considera un fattore determinante nella scelta di un nuovo impiego”.
Un segnale per il futuro del lavoro
L’indagine fotografa una situazione in movimento: i lavoratori italiani sono meno felici rispetto allo scorso anno, ma allo stesso tempo più stabili e meno propensi a cambiare. Il welfare aziendale continua a essere percepito come importante, ma non basta più da solo a motivare una scelta.
La sfida, come suggerisce Bertolini, è quella di costruire una nuova “grammatica del welfare”, capace di andare oltre il semplice pacchetto di benefit e puntare su soluzioni che mettano davvero la persona al centro. Un passaggio culturale che sembra necessario per rispondere alle esigenze di una forza lavoro sempre più attenta al proprio benessere, dentro e fuori l’ufficio.