Jimmy Carter, 39° presidente degli Stati Uniti ed ex coltivatore di arachidi, è morto domenica, all’età di 100 anni. Con la voce pacata e il distintivo accento georgiano, il suo unico mandato nello Studio Ovale fu segnato dai problemi economici interni e dalla crisi degli ostaggi all’estero. Nato nel 1924 a Plains, Georgia, una cittadina agricola, sposò, nel 1946, Rosalynn Smith e, dopo la morte del padre, nel 1953, assunse la gestione della fattoria di famiglia. Ben presto, Carter si dedicò alla politica, diventando senatore della Georgia nel 1962 e governatore nel 1971. Diventato leader nazionale del Partito Democratico, vinse le elezioni presidenziali del 1976 contro Gerald Ford, cavalcando il malcontento popolare per Richard Nixon. Durante la sua presidenza, stabilì relazioni diplomatiche con la Cina e negoziò un trattato di limitazione nucleare con l’Unione Sovietica. Tra i suoi successi personali i trattati del Canale di Panama e gli accordi di Camp David, che portarono pace tra Egitto e Israele. Gli ultimi mesi della sua presidenza furono segnati dalla crisi degli ostaggi in Iran, in cui non riuscì a liberare 52 americani detenuti fino al giorno in cui lasciò l’incarico. La percezione di debolezza nel trattare con i nemici contribuì alla sua sconfitta nel 1980 da parte di Ronald Reagan. Dopo la Casa Bianca, continuò il suo contributo al servizio pubblico, talvolta con mosse controverse negli affari esteri, specialmente riguardo al conflitto israelo-palestinese. Carter criticò Israele per le sue azioni contro Hamas nel 2014, dichiarando che non c’era “alcuna giustificazione al mondo per ciò che Israele sta facendo”. Insignito, nel 2002, del premio Nobel per la pace e autore di 28 libri, fondò, dopo la presidenza, il Carter Center, un’organizzazione non-profit dedicata alla politica pubblica. Fu anche membro degli Elders, un gruppo di leader mondiali indipendenti, inclusi Nelson Mandela e Kofi Annan. Lascia quattro figli, 12 nipoti e 14 pronipoti.