Il Covid-19, il blocco delle attività economiche e la quarantena imposta a tutti stanno mettendo in ginocchio il nostro sistema produttivo.
Il Coronavirus ha messo innanzitutto a durissima prova il sistema sanitario e reso urgente il suo potenziamento mentre la chiusura repentina di oltre il 40% delle attività produttive, sta ponendo in serio rischio la solidità delle imprese (la produzione industriale di marzo, secondo Confindustria, segnerà un calo “devastante”) ed ha letteralmente azzerato il reddito di intere fasce di popolazione che non hanno accesso ai canali di supporto offerti dal nostro sistema di welfare. È stato già calcolato che il “tasso di povertà” potrebbe raddoppiare, nonostante misure compensative messe in atto dal Governo: le previsioni per il 2020 sono di circa -11% di PIL per l’Italia.
Quindi colpiti indiscriminatamente individui, famiglie ed imprese. Ma non solo.
C’è anche il risparmio privato. Siamo come noto le “formiche d’Europa” con l’84% degli italiani che risparmia parte delle sue entrate mensili, a fronte di una media europea del 75%: questo risparmio è il fortino degli italiani.
E le disponibilità non spese, già risentono pesantemente della crisi tanto che le gestioni professionali, anche quelle più conservative, segnano ad oggi cali medi dal 15 al 20%, comprimendo il patrimonio mobiliare di famiglie e imprese.
Ha invece subìto un vero tracollo la Borsa: il 19 febbraio scorso le società quotate a Piazza Affari capitalizzavano circa €724 miliardi, durante questa crisi il loro valore borsistico è sceso a circa 432 miliardi: bruciati 292 miliardi! Unicredit ha ceduto sino al 45%, Banco Bpm il 41%, Intesa Sanpaolo il 36%, Mediolanum il 47%, Fca in tre mesi vale meno della metà (-51%). Resistono farmaceutici e diagnostica: Recordati + 2%, Diasorin +4%.
Il crollo dei mercati azionari ha parzialmente ritracciato nell’ultima settimana, ma é difficile pensare che il recupero continui speditamente o che abbia trovato un nuovo equilibrio.
E ci sono le finanze pubbliche, che sono e saranno interessate da consistenti minori introiti fiscali e previdenziali e dagli esborsi attuali e futuri per le misure di sostegno già decretate e quelle ulteriori che si renderanno indispensabili.
Ad esempio, nel 2020, il rapporto fra Debito pubblico e Pil potrebbe addirittura schizzare al 152,8% (a fine 2019 ha segnato il 134,8%). Infatti, per effetto del coronavirus, il Prodotto interno lordo, secondo recenti stime, potrebbe calare a -11%, attestandosi a € 1.610 miliardi e il debito potrebbe aumentare di circa 50 miliardi di €, quindi arriveremmo a € 2.459 miliardi.
In questa difficile, per alcuni versi addirittura drammatica, situazione, molti si chiedono quale può essere, quale deve essere, il ruolo delle Aziende di Credito e delle Fondazioni Bancarie.
Le Banche, che da sempre costituiscono importante (e sempre ubbidiente) veicolo di trasmissione nel trade-off fra obiettivi e strumenti della politica monetaria, le ha già coinvolte il Governo che nel “possente” decreto “liquidità” gli delega l’erogazione di finanziamenti con garanzie statali sino a € 400 miliardi.
Qui, per evitare il crac, il default generalizzato, del Sistema Italia, è importante erogare con tempestività, senza frapporre ostacoli burocratici, tagliando di netto il nodo della tradizionale analisi del “merito di credito” che gli operatori creditizi normalmente e scrupolosamente svolgono. Il Presidente dell’ABI, Patuelli, si è immediatamente attivato per sollecitare le associate e tempestivamente, non appena pubblicato il Decreto Legge n. 23 dell’8 aprile 2020 in G.U., ha inviato una “circolare applicativa del decreto sulle misure per fornire liquidità alle imprese”.
Le Fondazioni di origine bancaria che – vale la pena ricordare – sono organizzazioni non profit, private e autonome, sono le più sollecitate ad agire.
Il Prof. Tito Boeri, ex Presidente dell’INPS, scrive che il loro patrimonio deve essere posto a “garanzia per contrarre direttamente prestiti sul mercato da destinare agli interventi oppure come complemento alle garanzie offerte dallo stato per la concessione dei prestiti bancari. In questo modo, potrebbero concorrere a finanziare realisticamente fino a 120 miliardi di investimenti per contribuire al salvataggio del tessuto economico, sociale e sanitario del paese.”
Il Fatto Quotidiano ha pubblicato recentemente un appello affinché le fondazioni utilizzino i loro circa 40 miliardi di patrimonio per “arginare gli effetti devastanti di questa crisi senza precedenti. Ce lo devono.”
Aggiunge che il loro patrimonio “deve essere utilizzato senza esitazioni per salvare l’Italia dalla pandemia e rilanciare la ricostruzione. Adesso.”
Suggestive le richieste ed efficace il linguaggio, ma sono molte le perplessità e le conseguenti preoccupazioni: superiori al fascino suggestivo della proposta, tali per cui meglio non coltivarla.
Innanzitutto una parte consistente del patrimonio è investito nella “banca conferitaria”. Dismettere queste partecipazioni significherebbe “terremotare” pezzi importanti del Sistema bancario italiano.
Un altra consistente quota del patrimonio di queste Fondazioni è investita nella Cassa depositi e prestiti, della quale detengono il 16% del capitale (il restante è nelle mani del Tesoro).
Ulteriori disponibilità sono investite in Titoli di Stato e di Enti Territoriali, che vengono regolarmente rinnovati a scadenza. Anche per questa fetta di patrimonio, un eventuale disinvestimento inciderebbe negativamente sulle quotazioni con danni irradiati sull’intero Sistema finanziario.
C’è anche da sottolineare che le Fondazioni ricavano una parte significativa del loro reddito dai dividendi e dalle cedole dei cennati investimenti e che il loro venir meno priverebbe alcuni importanti settori delle erogazioni annualmente disposte dalle Fondazioni bancarie.
Fra i beneficiari, ricordo i “centri di servizio per il volontariato”, il “contrasto della povertà educativa minorile” ed altri interventi in settori di grande rilievo per il benessere delle Comunità, quali la ricerca scientifica, la cultura, l’istruzione, la sanità, l’arte e la conservazione dei beni ambientali e paesaggistici.
Quindi, parafrasando Raymond Carver e la sua rappresentazione dell’incomunicabilità, verrebbe da chiedere “What do we talk about, when we talk about”. Allora, di cosa parliamo? La proposta porterebbe più macerie di quanto ora ne provochi il Covid-19, a vantaggio di non meglio identificati interessi, per cui viene da chiedersi: a chi gioverebbe una tale misura?
In conclusione: innanzi ad un virus dagli effetti devastanti ed ancora non domato e ad un’economia conseguentemente prostrata e sull’orlo di quella che a buon titolo può essere definita come una “crisi recessiva epocale”, un grande supporto potrà arrivare proprio dal mondo del Credito; se le Fondazioni di origine bancaria però non cederanno a stravolgimenti di identità e continueranno a svolgere il ruolo statutario di promuovere lo sviluppo dei territori su cui insistono e quindi dell’intero Paese; se infine anche le Banche sapranno capitalizzare questo momento di difficoltà per tornare ad essere una componente essenziale del sistema produttivo, sostenendo gli altri settori dell’economia, attraverso le loro due principali funzioni: quella economica e quella monetaria.
D’altronde, fu proprio in un periodo di forte crisi economica e sociale che, tra XIV e XV secolo, alcuni francescani come Bernardino da Siena e Bernardino da Feltre iniziarono il cammino delle banche con l’istituzione dei “Monti di Pietà”. Questo favorì la lotta all’usura e il sostegno del microcredito, alla base dello sviluppo sociale, culturale ed economico che determinò il Rinascimento. Se dunque la storia può ancora essere considerata come la “magistra vitæ” di ciceroniana memoria, allora anche le banche potrebbero tornare ad essere fondamentali per un “rinascimento nazionale”.