“TA.RI.” è la sigla della tassa sui rifiuti, in scadenza in questi giorni.
Una tassa confusa tra le centinaia di diverse tasse che vessano gli italiani e che, per la verità, non incide più di tanto nell’incredibile quasi 50% che lo Stato pretende da ogni contribuente, ma che ha una sua particolarità: il cittadino che paga la TA.RI. è l’unico soggetto che maneggia rifiuti e che non guadagna nulla.
Per farvi capire il valore dei rifiuti, cominciamo dall’attenzione verso di essi da parte della criminalità organizzata. La Conferenza della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (UNODC) ha classificato il traffico illecito di rifiuti ai primissimi posti delle attività criminali transnazionali più redditizie, in concorrenza persino col traffico di stupefacenti (per i curiosi cito il documento pubblicato dalla stessa UNODC “Combating Waste Trafficking. A Guide to Good Legislative Practices”; si veda anche l’inchiesta di Ivan Cimmarusti, “Traffico illecito di rifiuti: in Italia affare da 20 miliardi”, Il Sole-24Ore, 6 giugno 2020).
I rifiuti, quindi, sono un bene, sono oggetto di commercio, se correttamente trattati possono essere rigenerati e diventare nuova materia prima; o, con i termovalorizzatori (ormai discussi soltanto per fanatismo), generare energia.
Il ciclo urbano dei rifiuti – che è quello che interessa i pagatori di TA.RI. – prevede (impone per legge) il conferimento degli stessi al proprio Comune.
Qui c’è il primo punto su cui dovremmo riflettere: il benessere attuale ci fa produrre una mole di rifiuti incredibile, facendoci qualificare “rifiuto” anche ciò che non è tale. Una facile riprova è data (nelle grandi città almeno) dai numerosi rom che frugano con una lunga asta di fil di ferro rigido nei cassonetti della spazzatura, recuperando moltissimi oggetti con i quali danno poi vita ad un frequentato mercatino del “recuperato”. Del resto è facile comprendere: un mio paio di scarpe vecchio diventa “rifiuto” ben prima di quello di una persona che abbia difficoltà a comprarsene un paio nuovo. Perché “rifiuto” giuridicamente è “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi” (art. 183 T.U. Ambiente). Quindi molti più rifiuti del necessario per colpa dei cittadini che non riparano più un oggetto rotto (non conviene) e non praticano più quell’autoriciclaggio cui assistevo sempre da bambino nei lontani anni 50’ e 60’: la cura con cui venivano conservati spaghi, tappi, bottiglie, le rare carte regalo; tutto ciò, insomma, che sarebbe potuto tornare utile.
Teoricamente il Comune, col conferimento da parte dei cittadini acquisisce una ricchezza, un bene (il rifiuto) che ha il suo valore. Il Comune, però, non ha vocazione imprenditoriale: il rifiuto ad esso consegnato (tramite cassonetti o porta a porta) deve essere velocemente portato via. Il Comune (quindi noi cittadini) paghiamo lautamente società private per prelevare il bene rifiuto e consegnarlo ai centri di raccolta.
La raccolta e il trasporto dei rifiuti costituiscono, quindi, il primo ciclo: e, lo si è visto, chi li fa guadagna.
Il secondo ciclo è dato dal trattamento dei rifiuti: i processi per modificare le caratteristiche dei rifiuti, separandoli in base alle tipologie (qui la differenziata fatta bene e raccolta meglio, può agevolare), ridurne il volume per facilitare il trasporto ed il commercio ulteriore. Chi lo fa riceve naturalmente un compenso.
I rifiuti così trattati vengono avviati al riciclaggio e al compostaggio: ma solo quelli che presentano determinate caratteristiche ed omogeneità.
Gli altri rifiuti che non risultano adeguati vengono avviati alla discarica o – quando esiste – ad un termovalorizzatore.
Anche chi opera tale separazione e trattamento dei rifiuti guadagna dall’operazione.
I riciclatori, nonostante le dichiarazioni pubbliche di grandi risultati (ma si vedano su questo giornale le due interviste rilasciate lo scorso giugno da Claudia Salvestrini, D.G. del Consorzio ex lege PolieCo), lamentano la mancanza di materia da riciclare.
Una tonnellata di rifiuti in polietilene da riciclare costa, in Italia, quanto una tonnellata di arance. In alcuni Paesi esteri la pagano di più e non vanno tanto per il sottile per possibili contaminazioni.
Questo spiega molte cose sul traffico di rifiuti: che può essere lecito e l’Italia paga perché altri Stati si prendano i nostri rifiuti (che poi magari vengono da questi venduti); o illecito, quando la “ricchezza” rifiuto divenga l’oggetto del crimine ambientale di organizzazioni dotate di forti capacità economiche e che non si facciano scrupoli a trattare materiale pericoloso ed altamente inquinante.
Qui finisce il ciclo.
Tutti hanno guadagnato tranne il cittadino: che per di più deve pagare una tassa specifica, la TA.RI., per l’appunto, come se non bastassero le varie imposte collaterali a quella sul reddito pagate a Regioni, enti locali e l’IMU.
Ma servirebbe un forte mutamento culturale – sia in seno alla P.A., sia nella coscienza sociale del cittadino (che, mi spiace constatarlo, sembra essere ridotta al lumicino) – perché questo avvenga. Ma si dovrebbe prendere piena coscienza dall’ assunto, non da tutti riconosciuto, da cui ha preso avvio il discorso: il rifiuto è un bene, con un suo valore commerciale.