Sarà un mio limite, ma io non riesco proprio a capire come possa piacere le legge da poco approvata che va sotto il nome di “autonomia differenziata”. Non ne faccio una questione politica: la norma approvata in Parlamento dalla maggioranza di centrodestra è la conseguenza logica non solo delle consultazioni referendarie di indirizzo svoltesi in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, ma anche della sciagurata riforma costituzionale voluta dal centrosinistra nel 2001 in nome della cosiddetta “devolution”. Una moltiplicazione delle materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni che, ben lontana dall’avere esiti federalisti, ha in questi ventitré anni moltiplicato i conflitti innanzi alla Corte Costituzionale e creato un caos normativo e regolamentare di cui non si sentiva alcun bisogno.
Non è bastata la lezione della pandemia, che ha mostrato in modo impietoso le fragilità e le criticità di un Servizio Sanitario Nazionale scempiato e devastato da venti piccoli e inefficienti sistemi feudali: non è bastato il fiume di danaro pubblico sprecato a causa della moltiplicazione dei centri di spesa; non è bastato l’ulteriore allargarsi del peso e del costo delle burocrazie. Lo Stato italiano continua in una specie di cupio dissolvi che lo porta a cedere poteri verso l’alto, in direzione Bruxelles, e verso il basso, rinunciando al più importante dei suoi compiti e doveri: garantire, per quanto possibile, l’uguaglianza dei cittadini in termini di opportunità e di accesso ai servizi fondamentali, dalla scuola, alla salute alla sicurezza.
Sono orgogliosamente meridionale, fiero delle mie origini e della mia terra aspra e assetata, e sono grato a Padova, la città e l’Ateneo che mi hanno accolto e formato. Ho vissuto sulla mia pelle il pregiudizio degli stupidi verso i “terroni” e mi sono sentito sempre e soltanto italiano, a casa mia davanti alla Basilica di Sant’Antonio come davanti alla tomba di San Pio a San Giovanni Rotondo. Come si fa a non capire che questa è l’unica autonomia che ci serve? Che dobbiamo lavorare perché il nostro Paese, la nostra nazione, la nostra Patria siano sempre più unite e coese per tenere con dignità il nostro posto fra le libere nazioni d’Europa e d’Occidente?
Si vogliono ripristinare frontiere che non esistono più da un secolo e mezzo? Vogliamo dar vita ad una nuova transumanza umana?
Certo, ogni discorso sull’autonomia differenziata si apre con la virtuosa premessa che vanno garantiti servizi essenziali uniformi. Ma se già ora non è così! Una somma che oscilla fra uno e due miliardi di euro all’anno viene trasferita dalle Regioni del Sud a quelle del Nord per la migrazione sanitaria, e questo costo è solo una parte di quello sostenuto dai cittadini meridionali per quello che sarebbe un loro diritto costituzionalmente garantito. Vogliamo parlare, per restare in ambito sanitario, delle liste d’attesa? E negli altri settori le cose non vanno meglio: a causa della mancanza del tempo pieno, un giovane meridionale trascorrerà a scuola fino alla maggiore età un anno esatto in meno del suo coetaneo del Nord. E potremmo proseguire parlando del lavoro, dei servizi pubblici, della dotazione infrastrutturale.
Questo mentre la spesa pubblica pro capite per un cittadino del Nord continua ad essere sia pure di poco superiore a quella per un cittadino del Sud, anche se in quella spesa pubblica vengono fatte confluire indebitamente sia le risorse correnti sia i cosiddetti fondi di coesione, cioè quelle risorse che dovrebbero essere aggiuntive e invece sono sostitutive. Si badi, non è solo un problema di equità –parola che pure dovrebbe avere un minimo di valore- ma anche di utilità: il miracolo economico degli anni Cinquanta non avrebbe potuto essere realizzato senza l’apporto del Sud; né quella prosperità sarebbe stata duratura se la lungimirante politica democristiana non avesse con l’intervento straordinario sostenuto una domanda interna che permise alle merci del Nord di trovare sbocco sul mercato. L’Italia ha senso, valore e futuro solo se resta tutta intera.