venerdì, 15 Novembre, 2024
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Gli atleti di ieri e di oggi, tricolore di sempre, di tutti

Sono un Italiano un po’ all’antica, di quelli cantati da Toto Cutugno. Quelli che magari ancora imprecano tutte le volte che si scontrano con l’inefficienza di un ufficio pubblico e cose simili ma che si emozionano nel vedere un Italiano sul podio e un tricolore che si leva sul pennone più alto. Nel sentire le note magari non proprio mirabili, del Maestro Novaro e le strofe classicheggianti e amputate di Goffredo Mameli.

Quella bandiera che non dovrebbe essere usata per improvvide provocazioni, e tanto meno per brutali esercizi pugilistici nell’Emiciclo di Montecitorio, vessillo che rappresenta tutti noi.

Questi Europei di Atletica sono stati per me una grande gioia nazionale. Undici ori, ventiquattro medaglie, trionfi in discipline sportive (pensate alla velocità pura) dove l’azzurro era spesso  solo un episodio. E tante ragazze e ragazzi di una nuova bella Italia, da questo eccentrico Tamberi mezzo rasato alla simpaticissima nera d’argento Larissa Iapichino, alle frecce della staffetta, a questo Marcell Jacobs, che ci fa sognare di ripetere a Parigi 2024 l’exploit di Tokio.

Certo, è un Italiano di El Paso (Texas) e parla la nostra lingua con qualche incertezza, proprio come il fresco numero 1 del tennis mondiale, ma neanche Gustav Thoeni sarebbe stato ammesso all’Accademia della Crusca. Sono i Ragazzi di una nuova Italia, bella come quelli che l’hanno preceduta. Per me, pugliese, che vivo a Padova è impossibile non pensare, vedendo la fantascientifica corsa della nostra staffetta 4×100, non rivedere gli occhi spiritati di Pietro Mennea, quella incredibile cavalcata sui 200 di Mosca o quel record messicano fra i più longevi della storia dell’atletica.

E che dire di Sara Simeoni, di quella ragazza legnosa con le gambe da fenicottero, anche lei oro a Mosca che sapeva slanciarsi verso il cielo con la sola forza della sua determinazione e dei suoi nervi. Lei veniva dal Veneto Figlia di una terra contadina ed operosa  Lui, Pietro, da Barletta, figlio di quei campi aridi che devi dissodare e coltivare spaccandoti la schiena. Venivano da generazioni di stenti, di fame atavica ma pieni di determinazione di successo.

Sara saltava perché se non salti la miseria ti schiaccia, e Pietro correva per non essere nella vita dei tanti . Gli atleti degli anni Settanta, anche i calciatori, non erano i marcantoni e le valchirie di adesso; ce n’erano che a trent’anni sembravano vecchi, di quelli precocemente senza capelli, di quelli che belli non sarebbero mai stati: per unFacchetti c’erano dieci Bedin.

Non mancavano, naturalmente, i prediletti dagli Dei: ricordo Klaus Di Biasi, tuffatore magistrale che sembrava la reincarnazione di Apollo. Ma la maggioranza era fatta di persone che regali della sorte ne avevano avuti pochi; i campioni di un popolo che ha sempre potuto contare più sull’ingegno che sulla fortuna, più sull’impegno e sul sacrificio che sul destino. Il popolo dei nostri padri, a cui non saremo mai abbastanza grati. Per questo l’inno d’Italia è così bello, anche quando Al Bano incappa in una serataccia; per questo è così bello il tricolore. Perché, anche quando è asciutto, reca i segni del sudore e delle lacrime di un popolo. Il nostro.

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