Queste elezioni per il Parlamento Europeo ci consegnano un dato, quello dell’affluenza, che in un certo senso è più importante dei risultati ottenuti dai singoli partiti. Per la prima volta nella storia dell’elezione diretta dell’Europarlamento (cominciata nel 1979) ha votato meno della metà degli aventi diritto al voto. Un dato che diventa ulteriormente significativo se si considera che alle elezioni europee era unito il voto per la Regione Piemonte e quello per circa 3700 Comuni (quasi la metà di quelli esistenti in Italia), con ben 23 capoluoghi di provincia e sei capoluoghi di regione.
Si tratta di un dato diffuso, ma non completamente omogeneo: lo “sciopero delle urne” ha infatti avuto proporzioni più massicce al Sud e nelle Isole. Disaffezione all’Europa? È possibile, ma anche disaffezione al voto, all’esercizio basilare del potere sovrano, al fondamento della democrazia. Di per sé non si tratterebbe di un dato allarmante: una partecipazione al voto non oceanica è tipica delle democrazie mature, vuoi perché in quelle società le èlite rappresentative tendono a omologarsi, vuoi perché l’elettore si sente in qualche modo tranquillizzato dalla solidità delle sue istituzioni. Al contrario, sono le democrature, le democrazie autoritarie ad avere bisogno di percentuali di affluenza enormi, che siano fonte di legittimazione per il “despota eletto” di turno.
Nel contesto del nostro Paese, però, si registrano altri e contrastanti fenomeni: l’astensionismo non sembra il frutto di un pacifico disinteresse, magari figlio dello snobismo: al contrario, si manifesta in parallelo con una crescente conflittualità sociale, con bisogni sempre più emergenti non drammatici ed esasperati, ma con una spinta verso un ribellismo e un dissenso asperrimo per alcune scelte delle classi dirigenti. I sondaggi ci dicono, ad esempio, che esiste una fortissima preoccupazione nella nostra opinione pubblica a proposito dell’invio delle armi all’Ucraina. Sono in tanti ormai a temere che l’attivismo Ucraino e il sempre maggiore coinvolgimento della Nato possano condurre a un’escalation bellica. Tuttavia i partiti dichiaratamente contrari all’invio di queste armi non arrivano tutti insieme al 20% . Altro grande Tema sotto gli occhi di tutti è quello israelo- palestinese.
Sono solo due esempi, e se ne potrebbero fare tanti; ma il punto fondamentale è che il non voto non significa che i cittadini non abbiano nulla da dire e siano più o meno inerti o acquiescenti: vuol dire che, pur avendo molto da dire, non credono più ai canali tradizionali della rappresentanza. Se queste possibili nuove coscienze sociali non si esprimono tramite il voto, perché percepito come inutile o indifferente, in quale altro modo si esprimeranno? Il rischio, è che si vada incontro a un “tutti contro tutti”: è la guerriglia che poi prende il posto della convivenza civile, nella gestione della complessità dell’ ordine pubblico.
Negli anni Sessanta – Settanta la società italiana ha dovuto affrontare la durissima tempesta del terrorismo, che pescava in un brodo di coltura di malessere sociale forse simile a quello di oggi. Ma poteva contare, al tempo, sui corpi intermedi. Partiti di massa con milioni di iscritti, la maggior parte dei quali praticante una militanza volontaria e disinteressata; sindacati fortemente rappresentativi dei lavoratori, che sapevano, fra contraddizioni ed errori, tenere a freno le spinte anarchiche o corporative.
È un patrimonio che l’Italia liquida di oggi sembra aver perduto, in un panorama internazionale che favorisce ogni tipo di trama o di aggressione. Alla politica – tutta- e alle istituzioni –tutte serve con urgenza un recupero di credibilità e di autorevolezza, una capacità di ascolto e di interpretazione di queste nuove coscienze sociali che non si fermi agli slogan e alla propaganda. È inutile deplorare l’assenteismo se non si interviene sulle sue radici e le sue cause profonde. E il dato di questa “assenza” in questa tornata elettorale e’ un alert troppo sonoro per non restare inascoltato.