venerdì, 21 Febbraio, 2025
Società

Plastic tax, una opportunità mancata?

Intervista in esclusiva a Claudia Salvestrini, direttore di Polieco, il Consorzio nazionale per il riciclaggio di rifiuti di beni in polietilene, che ci spiega perché raccogliamo tanto ma ricicliamo troppo poco

PolieCo è il più grande Consorzio italiano che si occupa della gestione dei rifiuti dei beni in polietilene, previlegiando il riciclo meccanico rispetto a quello chimico e alla termovalorizzazione. Abbiamo chiesto al suo direttore generale, la dottoressa Claudia Salvestrini, le differenze tra questi processi, ma soprattutto di spiegarci le disfunzioni che nel nostro Paese non permettono alla filiera del recupero e del riciclo di funzionare al meglio.

Dottoressa Salvestrini, dopo la raccolta qual sarebbe la migliore strada per i rifiuti plastici?
Privilegiamo il riciclo meccanico per consentire alla plastica di avere una nuova vita sotto forma di granulo riutilizzabile, mentre nel riciclo chimico c’è una conversione in olio, in carburante, in energia che fa perdere la specificità della materia trasformandola in qualcosa di altrettanto prezioso, ma che non farà risparmiare la generazione di nuova plastica. Il nostro ideale sarebbe riuscire a riciclare tutto per limitare la produzione di materia prima vergine, ma per ora non è possibile e non sempre è conveniente dal punto di vista della sostenibilità per un esubero di utilizzo di acqua ed energia, come nel caso dei materiali poliaccoppiati e del tetrapak. In quel caso conviene destinare i rifiuti alla termovalorizzazione.

Una delle difficoltà a riciclare il più possibile è rappresentata da una raccolta fatta male?
Purtroppo sì, perché abbiamo una raccolta basata sulla quantità e non sulla qualità, determinata dall’esistenza di un sistema viziato dall’elargizione di contributi che non sempre vengono erogati in modo appropriato. Questo fa sì che magari il cittadino faccia la sua raccolta differenziata anche bene, ma che dall’uscita dell’abitazione in poi ci sia tutta una serie di atti che ne compromettono la bontà iniziale, rimescolando i rifiuti urbani con quelli industriali. Ne consegue che solo un 40% di materiale è buono e la rimanenza un “fritto misto” che non trova altra collocazione se non come combustibile per inceneritori, spesso sostituiti dai cementifici, o come materia prima per i traffici illeciti.

Dal “fritto misto”, come lo ha chiamato lei, è impossibile creare materia prima seconda?
Si era tentato qualche anno fa di realizzare plastiche eterogenee con granuli misti, ma sono emerse delle criticità in termini di risultati attesi relativi alla resistenza meccanica e chimica. L’ideale sarebbe raccogliere polimero per polimero, ma è un’utopia, quindi dobbiamo per forza sostenere i costi di selezione a posteriori. Ne consegue che il mono-materiale sia molto costoso e che questo abbia un impatto deleterio sul mercato, perché si scontra con una materia prima vergine che è nettamente più economica.

Da che dipende questa eccessiva sperequazione?
Il costo della materia prima vergine è molto più basso anche per la mancata applicazione della “Plastic tax”, la tassa sulla plastica mono-uso, ritenuta particolarmente impattante sull’ambiente. La Plastic Tax nasce come un incentivo all’utilizzo di plastica rigenerata a discapito di quella vergine.

Se ho capito bene con la Plastic Tax raggiungeremmo due obiettivi: un minor consumo di materia prima vergine che deriva dal petrolio e, di conseguenza, una spinta al rigenerato che non sarebbe così tanto più costoso. Giusto?
Esatto. Nella UE molti Paesi, come Spagna o Germania, l’hanno già applicata e, infatti, lì abbiamo assistito a una impennata di richiesta di rigenerato. Questo incentiva la ricerca per utilizzare il più possibile il rigenerato entrando in quella che è la vera economia circolare. Ma l’Italia è uno di quei Paesi che, di rinvio in rinvio, non l’ha ancora resa obbligatoria.

Ma lo Stato è comunque costretto a pagare questa tassa all’Unione Europea?
Si. Gli Stati che non hanno provveduto all’applicazione della Plastic Tax devono comunque sostituirsi alle imprese nel pagamento.

Cosa si può fare per cambiare?
Intanto cercare di mettere in atto delle norme che incentivino l’utilizzo di prodotti rigenerati. Poi, sicuramente, bisogna fare i conti con la carenza impiantistica e lavorare affinché vengano accelerate le procedure autorizzative per poter contare su impianti di riciclo adeguati. La vera economia circolare si fa in un solo modo: con il riciclato. Se tu non ti metti nella condizione di farlo sei fuori gioco, devi sempre attingere da Paesi terzi per avere un rigenerato che non è detto che sia di ottima qualità, perché una cosa possiamo dirla francamente: gli impianti di riciclo italiani sono leader nel settore e si distinguono positivamente da quelli di diversi Paesi esteri.

Ma alla fine come si colloca l’Italia nelle graduatorie europee?
Non siamo agli ultimi posti, ma non siamo neanche i primi della classe come si vuol far credere. Il merito è da attribuire anche all’intuizione italiana di aver dato vita ai sistemi consortili che, in un momento in cui era davvero difficile far comprendere alle persone la raccolta finalizzata al riciclo, hanno rivestito un ruolo di formazione e sensibilizzazione favorendo una nuova coscienza ambientale. Oggi, anche se un consorzio come quello che rappresento riesce a raggiungere circa il 40% di materia trasformata in rigenerato – un traguardo di certo considerevole – c’è da dire che se puntassimo su una raccolta di qualità, un’implementazione del sistema di riciclo, uno snellimento delle procedure autorizzative, potremmo raggiungere risultati di gran lunga migliori. L’inerzia istituzionale e l’interferenza delle lobbies non consentono un vero cambio del paradigma ambientale, ostacolando così l’attuazione di una concreta economia circolare.

C’è qualcosa che dovremmo insegnare ai giovani perché il futuro sia diverso?
Viviamo un momento di forte contraddizione: da un lato le manifestazioni ambientaliste contro lo spreco delle risorse, dall’altro la ricerca spasmodica di confort e oggetti imposti da un modello sempre più guidato dal consumismo, basato sull’usa e getta e non sull’economia circolare. Vista l’eredità che stiamo lasciando, dopo aver anteposto, per decenni, il dio denaro alla tutela dell’ambiente e della salute, credo che i giovani di oggi siano l’unica vera speranza di un cambiamento culturale. Non abbiamo molto da insegnare alle nuove generazioni, ma dai giovani, che sono costretti a interrogarsi e a fare i conti su un sistema ambientale gravemente danneggiato, ci aspettiamo azioni in grado di andare nella direzione di modelli economici più sostenibili e rispettosi del genere umano.

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