Nel marasma indecifrabile in cui si sta autodistruggendo il nostro mal tollerato villaggio universale, colpisce e deve far riflettere l’imposizione di una sorta di ortodossia obbligatoria.
Il pensiero unico, l’intolleranza verso chi abbia concezioni differenti, si va ponendo, anche con manifestazioni clamorose: da parte degli studenti universitari che, in tutto il mondo, negano il diritto di parola a chi provi a propugnare tesi e teorie non in linea con la loro ortodossia; da parte di un dibattito politico sempre meno rispettoso degli avversari; ma anche da parte di alcuni Stati (non solo sovranisti, ma anche quelli conservatori degli USA in particolare, come hanno riferito le cronache della settimana) che hanno regolato per legge – quindi con limiti e divieti – gli insegnamenti in tema di razzismo, sesso, identità o che hanno tagliato i programmi di inclusione di studenti di minoranze etniche o anche sessuali.
Si tratta, secondo il mio modo di vedere, di un ulteriore gradino derivato dal “politically correct”. Uno step ulteriore dopo la cancel culture, in forza della quale l’uomo contemporaneo si sarebbe dovuto vergognare di quasi tutto ciò che era stato fatto dall’umanità precedente, perché non corrispondente all’odierno corretto sentire. Sono partito, ovviamente, dalla mia concezione democratica e liberale della società: qualsiasi pensiero è lecito e deve essere liberamente esprimibile, perfino quelli che più sono lontani dal mio modo di essere e di sentire.
Insomma, il trionfo di quel pensiero attribuito a Voltaire (ma in realtà della scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall) «mi fa schifo quello che tu dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Mi sono, quindi, chiesto perché una cultura che giustamente non concepisce discriminazione di un essere umano per la sua razza, per il suo sesso, per le sue convinzioni politiche, per le idee che esprime, per i lgbtqia+, stranamente ed incoerentemente incontri difficoltà ad essere applicato nei confronti di altre minoranze.
Tra queste l’antico pregiudizio contro gli ebrei. Proprio l’antisemitismo, l’intolleranza verso Israele è l’oggetto principale delle manifestazioni universitarie da cui ha preso spunto il nostro discorso.
Una discriminazione che viene proclamata e difesa e contro la quale – ed è questo ciò che non riesco a spiegarmi – non si ammettono opinioni diverse: gli ebrei vanno discriminati, Israele è uno Stato canaglia (secondo alcuni “nazista”, con una aberrazione storica evidente). Persino la mia come sempre opinabile opinione che Israele, malamente guidato da Netanyahu, con la sua spropositata reazione e con autentiche stragi di civili, sia passato dalla parte del torto, non appare sufficiente.
Una dotta e cara persona (che non vuole essere citata) alla quale accennavo i miei dubbi, mi ha discretamente suggerito di studiare il “paradosso di Popper” per trovare la soluzione.
Si tratta – ho frettolosamente studiato – del “paradosso della tolleranza” (Karl Popper, 1945) secondo cui una collettività indiscriminatamente intollerante verrà certamente travolta ed alla fine dominata, magari con modalità dittatoriali, dalle frange intolleranti presenti al suo interno. Il paradosso consiste nella considerazione che non ammettere tolleranza nei confronti dell’intolleranza sia il metodo necessario per preservare la naturale tolleranza di una società aperta.
Ma da qui a vietare per legge il pensiero diverso il passo è breve. Una assurdità per un liberale come il sottoscritto che neppure concepirebbe ipotizzabile in astratto il reato di opinione: da limitare comunque al massimo. In genere si tratta di delitti contro la personalità dello Stato: propaganda e apologia sovversiva (incitamento alla rivoluzione), e del cosiddetto vilipendio della repubblica e delle istituzioni costituzionali. Da maneggiare con molta cura, perché il passo dalla democrazia al regime assolutista è breve.
Aleksej Naval’nyj è morto in carcere (non importa se ucciso o per altre cause) mentre scontava una pena per un reato di opinione: avversione al governo Putin, in Russia severamente punita.
È facile notare che la condotta che concretizza simili reati consiste nella manifestazione di un’opinione diversa: col pericolo, sempre in agguato, di superare l’invalicabile limite costituzionale della libertà di pensiero. Così che questa non tolleranza del pensiero diverso, è pericolosissima: sia che provenga da governi assolutisti, sia che consista in un atteggiamento culturale di insofferenza.
Vi confesso: il “paradosso di Popper” mi ha mandato in confusione, esattamente come la constatazione che tra gli studenti che contestano Israele vi siano anche giovani ebrei e come l’immagine di un ebreo ortodosso col volto insanguinato per non essere stata tollerata la sua non ortodossia verso il suo stesso Stato.
Così che – ferma la mia vicinanza al popolo ebraico e la mia preferenza di Israele, come Stato democratico e non teocratico – tanto per dimostrare che non solamente il sottoscritto ha le idee poco chiare, mi affido per le conclusioni ad un altro paradosso, con una citazione tratta da “The Jewish Paradox” di Nahum Goldmann (non proprio tenero con Israele): «”non capisco il tuo ottimismo”, dichiara Ben Gurion. “perché mai gli Arabi dovrebbero fare la pace? se fossi un leader arabo non scenderei mai a patti con Israele. è ovvio: abbiamo preso il loro territorio. Certo, Dio lo ha promesso a noi, ma cosa importa per loro? il nostro Dio non è il loro. noi veniamo da Israele, è certo, ma duemila anni fa; cosa significa questo per loro? C’è stato antisemitismo, Hitler, Aushwitz, ma era colpa loro? Loro vedono solo una cosa: siamo venuti qui e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo? Magari potrebbero dimenticarlo in una o due generazioni, ma per il momento non c’è nessuna chance. Quindi è molto semplice: dobbiamo essere forti e mantenere un esercito potente. Tutta la nostra politica è questa. Altrimenti gli arabi ci spazzeranno via.” – “ma come puoi dormire la notte con questa prospettiva in testa – gli ho chiesto – e essere anche il primo ministro di Israele?” – “e chi dice che dormo la notte?”, ha semplicemente risposto».