Stavolta andiamo ad esplorare le distorsioni che avvengono, nella prassi processuale penale, al momento di emettere i decreti autorizzativi delle intercettazioni, con particolare attenzione agli effetti della sostituzione, totale o parziale, della motivazione addotta in loro sostegno con un’unica parola: “Omissis”!
Tale prassi – sempre più diffusa, senza che la Cassazione intervenga a reprimerla adeguatamente, nonostante l’evidente violazione del principio di parità delle armi fra accusa e difesa – solleva infatti questioni significative non solamente riguardo alla trasparenza, ma anche alla correttezza delle indagini oltreché alla possibile violazione dei diritti delle persone coinvolte nell’attività intercettiva (i cosiddetti “bersagli”: parola non a caso mutuata dalla balistica e dalle altre scienze della guerra).
Nel contesto della giustizia penale, le intercettazioni telefoniche e ambientali rappresentano d’altronde uno strumento investigativo che le Procure sbandierano come di fondamentale importanza, perché utilizzato al fine di ricercare e raccogliere prove in diversi procedimenti penali, soprattutto quelli relativi ai cosiddetti “reati dei colletti bianchi”.
Tuttavia, l’autorizzazione ad effettuare intercettazioni, formalizzata in specifici decreti del giudice competente, presenta con sempre maggior frequenza delle criticità che possono giungere fino al punto di nascondere alla difesa degli indagati l’intera conversazione captata: ma la più frequente di tali criticità è frutto di una prassi che porta fino a redigere tali decreti inserendovi la dicitura “Omissis” in luogo della motivazione o di parti di essa, con implicazioni significative rispetto alla tutela di quei diritti fondamentali che ogni attore del sistema giudiziario dovrebbe comunque aver presente, visto che la parola “Omissis” (dal latino “omissus”, che significa appunto “omesso”) è impiegata nei documenti ufficiali per indicare la volontà di occultare, per le ragioni più varie, parte del testo che avrebbe giustificato il ricorso alla captazione.
Nel contesto dei relativi decreti di autorizzazione, gli “Omissis” possono d’altronde essere legittimamente utilizzati per proteggere informazioni sensibili, garantire la sicurezza delle operazioni investigative o tutelare la privacy delle persone coinvolte: sebbene queste ragioni possano effettivamente sussistere, l’uso eccessivo o inappropriato degli “Omissis” non può non sollevare le preoccupazioni di cui diciamo appresso:
a) Innanzitutto la sostituzione di parti significative della motivazione con un “Omissis” mina comunque la trasparenza del processo decisionale e questo può, a sua volta, limitare la capacità delle parti (e dei loro avvocati) di comprendere pienamente le ragioni poste alla base di ciascuna autorizzazione, ostacolando la redazione di un’efficace richiesta di riesame del relativo provvedimento;
b) c’è poi da ricordare come le intercettazioni costituiscano un’intrusione nell’ esercizio del diritto alla privacy, per cui la mancanza di una motivazione dettagliata e comprensibile va a limitare la possibilità di valutare l’adeguatezza e la proporzionalità del ricorso ad intercettazioni rispetto all’obiettivo degli investigatori, creando ulteriori rischi rispetto alla compressione dei diritti portati dalle persone interessate;
c) un ulteriore aspetto problematico riguarda infine il rispetto del principio di legalità di fronte alla valutazione della decisione di autorizzare l’intercettazione stessa; senza una motivazione esposta nella sua completezza, diviene infatti arduo – per i giudici di controllo e per le Corti superiori – verificare la conformità di ciascun decreto ai requisiti costituzionali intesi come necessari in un determinato momento storico.
Per mitigare le distorsioni appena evidenziate, sarebbe necessario adottare un approccio più equilibrato, nell’uso degli “Omissis”, all’interno dei decreti autorizzativi di ogni intercettazione e alcune misure potrebbero includere la limitazione di tale uso alle sole informazioni effettivamente necessarie per proteggere ben delimitati interessi, fornendo nel contempo una motivazione il più possibile specifica e dettagliata.
Finora è però mancato un rafforzamento dei meccanismi di controllo e di revisione delle determinazioni di intercettare, garantendo che le Corti di appello – e, soprattutto, la Cassazione – dispongano degli strumenti necessari per una completa valutazione delle motivazioni che sorreggono ciascuna autorizzazione, al fine di eventualmente dichiararne la nullità.
Occorrerebbe dunque lavorare all’implementazione di procedure che assicurino una maggiore trasparenza e responsabilità nei procedimenti di autorizzazione delle intercettazioni, includendovi la possibilità di un dialogo effettivo fra accusa e difesa, non limitato alla presentazione di brevi memorie – puntualmente respinte dal GIP voi o dal GUP di turno – per contrastare eccessi nell’impiego degli “Omissis”.
In conclusione, è ormai divenuto cruciale che la prassi relativa all’uso di questi ultimi venga attentamente rivisitata in ogni sede istituzionale competente e, ove necessario, modificata e corretta.
Ciò al fine di salvaguardare i principi di trasparenza, legalità e protezione dei diritti fondamentali, che dovrebbero costituire – ma non costituiscono ancora – i pilastri su cui dovrebbe fondarsi un diritto processuale penale compatibile con la nostra Costituzione e, prima ancora, con le norme declamate nella Carta Europea dei Diritti Fondamentali