domenica, 22 Dicembre, 2024
Geopolitica

Pechino contro Taipei, le minacce e la realtà

*Generale dell’Esercito Italiano, Membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation, Membro dell’International Institute of Humanitarian Law

La vittoria del presidente indipendentista nella Repubblica di Cina – Taiwan cambia qualcosa nei difficili rapporti dell’isola con la Cina Popolare?

Le tensioni rimangono tali, non aumentano perché queste elezioni vanno nel senso della continuità. Il presidente eletto è già vicepresidente dell’attuale Capo dello Stato Tsai Ing-wen che, comunque, resterà in carica fino a maggio. La Cina Popolare non vede di buon occhio l’attuale situazione e non è contenta di questo risultato. Ma probabilmente nulla sarebbe cambiato se avesse vinto il candidato dell’altro partito, il nazionalista Kuomintang (KMT). Taiwan e i taiwanesi non vogliono perdere la loro indipendenza e il Comitato Centrale del Partito comunista a Pechino non lo accetta.

In particolare, ha vinto in candidato più atteso, il già Vicepresidente Lai Ching-te che porta con sé alla vittoria – come sua Vicepresidente – la Signora Bi-khim Hsiai (ex rappresentante dell’Ufficio di Taiwan negli USA).

Secondo alle elezioni Hou You-yi, del partito conservatore Kuomintang (KMT) e terzo il 64enne Ko Wen-je fondatore del nuovo arrivato, Partito Popolare di Taiwan (dal 2019).

Diversa la distribuzione dei 113 seggi del parlamento dove il KMT ha la maggioranza (52 seggi contro 51 del partito del nuovo Presidente) e Ko si ferma a 8.  Lai Ching-te dovrà trovare un accordo con Ko Web-je per avere una stabile maggioranza in un parlamento.

Pechino non ha quindi pretesti per intensificare le sue pressioni sull’Isola?

Il Presidente Xi ha minacciato di volere l’annessione di Taiwan entro il 2049, a 100 anni dalla fondazione della Repubblica Popolare cinese. Ma l’attuale capo indiscusso della Cina Popolare difficilmente sarà ancora al potere fra 25 anni. E bisognerà vedere nel frattempo chi avrà occupato il suo posto nell’attuale autarchia e come agiranno nei prossimi anni Xi e il suo successore, quando nominato.  L’unificazione con la forza è da sempre una minaccia. Ci sono pressioni militari, mediatiche, psicologiche che continuano anche con il “soft power” cinese che punta a continuare nell’isolamento internazionale dell’isola. Taiwan, diciamo, c’è abituata e va avanti lo stesso con la sua idea di democrazia. Nel breve e nel medio periodo non dovrebbe cambiare nulla. Per impossessarsi di Taiwan la Cina Popolare ha due possibilità: la prima è una cruenta invasione militare, che ha costi elevati e per cui Pechino non è ancora pronta. La seconda è lo strangolamento economico territoriale, con un blocco navale e aereo, che impedisca che sull’isola arrivino carburante, cibo, etc. Questa ipotesi è ovviamente in contrasto con il diritto internazionale (atteso che Pechino lo rispetti): le guerre possono essere combattute ma non si può ridurre alla fame una popolazione di 24 milioni di persone. Un blocco navale cinese farebbe crollare l’immagine che Pechino si è creata in questi anni di potenza che vuol essere leader mondiale.

Una scelta del genere spaventerebbe i Paesi dell’area e potrebbe creare spaccature nella rete di alleanze costruita da Xi?

La Cina Popolare considera il Mar cinese meridionale come una specie di “Mare Nostrum” non perché sia pescoso o perché vada sfruttato a fini turistici. Lì sotto ci sarebbero miliardi di barili d’idrocarburi di cui Pechino ha bisogno per la sua economia. Per sfruttare queste risorse la Cina Popolare accetta il rischio di entrare in attrito con le Filippine, il Vietnam, la Malesia, il piccolo Brunei e poi allargando lo scenario al Mar cinese orientale, appunto con Taiwan, Giappone e la Corea del Sud. L’unico Paese con cui, per il momento ha degli accordi positivi, è la Cambogia, che le serve per i suoi porti.

In che senso la Cina Popolare non è pronta per un attacco militare?

La Cina Popolare non è ancora completamente preparata. Per sostenere un attacco anfibio a Taiwan, Pechino deve essere in grado trasferire sull’isola con una forza consistente che non sia ridotta di capacità anche solo nell’attraversamento dello Stretto di Taiwan. Deve creare delle teste di ponte sulle spiagge dell’isola e poi conquistare terreno in profondità.

Va considerato che i taiwanesi sono pronti a combattere strenuamente applicando un sistema difensivo che si può definire del “porcospino” (porcupine) strutturato in modo da rendere talmente difficoltoso conquistare l’isola da scoraggiare quest’operazione.

La Cina Popolare dovrebbe condurre un’azione particolarmente distruttiva e con capacità anfibie che sua Marina non ha ancora raggiunto.

Per attaccare Taiwan dovrebbero ammassare sulla costa cinese continentale un numero enorme di soldati, con ingenti quantitativi di armi e con numerose navi per trasportarli. Non potrebbe essere un’operazione lampo perché tutto questo sarebbe visto dai satelliti: non potrebbe sfruttare l’effetto sorpresa. Tra l’altro, non tutta l’isola è idonea ad uno sbarco e i taiwanesi avrebbero tutto il tempo per organizzare una difesa efficace nelle “aree chiave”. L’isola ha 24 milioni di abitanti, è altamente urbanizzata, in alcune zone ci sono ampie risaie ed è quindi difficile fare anche operazioni terrestri con mezzi corazzati. Né è ragionevole pensare che la Cina Popolare possa mirare alla distruzione totale di Taiwan. Le fabbriche, soprattutto tecnologiche, di Taiwan sono le migliori al mondo nel settore dei microprocessori ed è importantissima per la Cina Popolare stessa.  Distruggerle significa compromettere anche il sistema economico cinese. Tra Taiwan e la Cina Popolare c’è tuttora un enorme scambio commerciale. Alcune industrie taiwanesi producono i microchip anche in aree della Cina comunista.

In fin dei conti, alla Cina Popolare converrebbe davvero inglobare un Paese di oltre 20 milioni di abitanti, solidamente democratico? Non rischierebbe di “importare” quello che per i comunisti è il pericoloso “virus” della democrazia? A Hong Kong sono riusciti a reprimerlo ma a Taiwan non sarebbe una passeggiata.

Pechino non considera l’isola una democrazia, ma solo una provincia ribelle. Punterebbero a tenere isolata la popolazione taiwanese dal miliardo e mezzo di cinesi. Non lo vedo come un problema. La conseguenza più grave sarebbe se alla Cina Popolare fossero applicate sanzioni economiche su larga scala come quelle adottate contro Mosca dopo l’aggressione di due anni fa all’Ucraina. La Russia riesce a sopportare le sanzioni perché è un Paese enorme che ha tutto ciò che gli serve e alleanze che hanno retto, Cina Popolare compresa. Pechino, ad esempio, non ha sul territorio fonti energetiche sufficienti. Se le fossero precluse le forniture di alcune merci strategiche, se si incrinassero i rapporti con gli altri Brics, se Pechino perdesse i suoi principali mercati che sono l’Europa occidentale e l’America subirebbe gravissime conseguenze economiche. Inoltre, la sua attendibilità internazionale, su cui lavora da anni, sarebbe compromessa.

Io credo che Pechino non desisterà dalla sua volontà di far cambiare idea alla Repubblica di Cina – Taiwan ma non potrà forzare la mano più di tanto. Da rilevare, comunque, che in questo momento d’incertezza il Presidente USA Biden non vuol esasperare i rapporti con Pechino (cerca di non indispettire la controparte) e ha dichiarato prontamente che gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza della Repubblica di Cina – Taiwan.

D’altra parte, gli USA hanno voluto mostrare che i rapporti strettissimi con il governo dell’isola sono comunque mantenuti, ad esempio il Segretario di Stato Blinken si è subito congratulato con i nuovi eletti, teniamo presente che la futura vicepresidente è ben conosciuta e stimata a Washington per averci lavorato per anni in passato con successo.

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