domenica, 17 Novembre, 2024
Società

Il bavaglio e la gogna

Hanno avuto una vasta eco le notizie di questi giorni afferenti l’introduzione del divieto di pubblicazione, anche per estratto, dei documenti processuali contenenti misure cautelari irrogate agli indagati in procedimenti penali che spesso si concludono con un nulla di fatto: taluno ha parlato di “bavaglio” alla libera stampa, talaltro ha invece sottolineato la necessità di tutelare, chi sia colpito da simili misure, dal linciaggio mediatico che inevitabilmente le accompagna.

Di più: ormai da diverso tempo serpeggia nell’opinione pubblica il sospetto che molte di quelle misure – piuttosto che finalizzate ad evitare inquinamenti di prove o reiterazioni di reati – siano adottate col preciso scopo di colpire quelli fra coloro che, ormai senza perifrasi, i PM usano definire “i potenti di turno”; questi ultimi infatti hanno un torto grande: quello di insidiare il ruolo di titolari della potenza che alcuni magistrati ritengono di dover possedere in esclusiva.

Ecco allora che, quando quel ruolo viene insidiato, scatta la necessità di fermare coloro che siano anche lontanamente sospettati di insidiarlo e si ricorre così all’operazione ben descritta da Luca Palamara – ne “Il sistema”, pag. 93 – per rispondere alla domanda dell’intervistatore (Sallusti), che gli chiedeva se i magistrati fossero davvero convinti di essere così potenti: “Le spiego – risponde Palamara – una cosa fondamentale per capire che cosa è successo in Italia negli ultimi vent’anni. Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti o di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione… Ecco, si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un sistema che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli.”

Sono parole che spiegano la peculiarità della situazione italiana e delle ragioni per le quali molti di noi invidiano i cittadini degli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Non c’è dubbio che l’introduzione di questo divieto di pubblicazione nuoccia – piuttosto che alla libertà di stampa, che può comunque continuare a manifestarsi pubblicando le notizie degli arresti – alla strategia degli inquirenti che vogliano, attraverso la richiesta di quelle misure, danneggiare innanzitutto l’immagine degli indagati agli occhi dell’opinione pubblica, chiedendo ai giornalisti – in cambio dello scoop – di pubblicare anche, virgolettandole ed evidenziandole, le motivazioni (talvolta palesemente fantasiose) sulle quali quelle stesse misure siano state fondate.

Può spiegarsi solo in questo modo perché alcuni inquirenti abbiano reagito con tanta veemenza a questa scelta del Parlamento, che non incide minimamente sui loro poteri processuali, ma moltissimo può incidere sulle loro strategie politiche verso personaggi giudicati scomodi, per poterli impunemente trattare come delinquenti e violare così la previsione del primo comma dell’art. 11 Bis della Legge Cartabia, ove è previsto che “nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.”

Questo è il principio, purtroppo eccessivamente limitato attraverso l’introduzione di diverse eccezioni in altri punti di quella legge: ma è proprio sulla cancellazione di quelle eccezioni che occorre ora metter le mani, affinché non accada di dover nuovamente leggere provvedimenti reiettivi dei Tribunali della libertà che fondino le loro decisioni sulla necessità di impedire che un indagato possa “continuare a delinquere”, anche se nessuno ha potuto – in precedenza – lecitamente stabilire come egli abbia potuto iniziare la propria, presunta, attività delinquenziale.

Ciò non toglie però che il Parlamento abbia appena compiuto una scelta, oltrechè opportuna, doverosa: ove si ricordi che tale scelta va anche letta come un ulteriore effetto applicativo di quel principio di presunzione di innocenza che il diritto eurounitario impone agli Stati membri, ma che in Italia stenta ancora a farsi strada.

Mi premuro di sottolineare questo profilo, al fine di caducare le infondate speranze di quei magistrati che – ritenendo leso il loro potere di colpire mediaticamente le persone che abbiano scelto di indagare in nome della pretesa obbligatorietà dell’azione penale – iniziano già a confidare in un successivo intervento della Corte Costituzionale che possa cancellare le disposizioni approvate in questi giorni.

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