Nel 2017 un gruppo di docenti universitari inviò al Presidente del Consiglio di allora, e al Minsitero dell’Istruzione, una lettera nella quale si chiedevano interventi legislativi per la tutela della lingua italiana. Secondo costoro gli studenti universitari non erano più in grado di scrivere correttamente in italiano. Nel 2019 il professore Nicola Grandi, docente di linguistica all’Università di Bologna divenne noto per la proposta di un ricerca-seminario per “ampliare l’offerta formativa nell’ambito dell’insegnamento di Linguistica e fornire agli studenti degli strumenti pratici per sondare più a fondo una disciplina che è prevalentemente teorica.” Si chiamava UniverS-ITA. “A detta di molti – spiegava qualche anno fa Grandi – l’italiano versa in precarie condizioni di salute, ma l’impressione è che spesso ci si basi su sensazioni personali piuttosto che su dati di studio. La lettera inviata nel 2017 da quei 600 professori universitari, dal punto di vista tecnico conteneva affermazioni molto imprecise e definizioni provvisorie di un problema che aveva necessità di essere analizzato più a fondo”.
Scrivono meglio di quanto si pensi
Poi c’è stata la pandemia. I soliti posticipi. Ma i dati della ricerca, svolta su oltre 2.000 studenti, afferenti a oltre 100 Corsi di Laurea Triennali, di diversi ambiti disciplinari, e provenienti da diverse aree geografiche del Nord, Centro e Sud, mostrano che la scrittura dei giovani è “meglio di quello che si pensi.” Anzi, Grandi sostiene che i giovani scrivono molto più del passato, ma che è anche vero che “storicamente l’Italia è un paese dialettofono in cui l’italiano è sempre stato lingua di pochi.” In particolare, l’italiano standard è una lingua elitaria (derivante dall’italiano letterario) che non può rappresentare la maggioranza dei parlanti, per cui è logico un abbassamento del registro verso forme più ricevibili. Soprattutto nell’era dei social e degli sms che più di una frase e qualche emoticon non contengono. Addirittura Twitter è diventato famoso e diffuso perché non si potevano scrivere più di 150 lettere. L’attuale italiano standard (dai linguisti chiamato neo-standard), che secondo alcuni sarebbe rappresentato proprio dall’italiano giornalistico, ha un registro più informale rispetto allo standard tradizionale. “L’italiano scritto degli studenti universitari si collocherebbe esattamente a metà tra il neo-standard e il vecchio standard, essendo un po’ più elevato del primo e un po’ meno del secondo – ha spiegato Grandi – sembra quindi essere la mediazione ideale”.
Il mito è sfatato
Insomma a conti fatti il mito è solo un mito: gli studenti non scrivono peggio che in passato, ma è l’uso della lingua scritta ad essere cambiato. “È evidente che il problema si abbia con l’italiano scritto formale, in quanto si è proceduto verso un uso via via più informale della lingua.” Poi è vero che, da quanto risulta dalla ricerca, i giovani universitari hanno un lessico adeguato, familiarità con la scrittura, conoscono tempi e modi della lingua italiana, ma se devono scrivere un testo complesso si arenano. Gli elaborati, nelle mani dell’equipe del professor Grandi, sono stati analizzati da un algoritmo che ha confrontato il numero di frasi e parole impiegate, l’ortografia e la punteggiatura. Tra l’altro non è solo questione si scuola. Risulta più bravo a scrivere chi conosce lingue antiche e legge molto: sono 190 le parole impiegate da chi si cimenta nella lettura di almeno dieci libri l’anno contro le 170 di chi lo fa poco. Poi ci sono le studentesse, che ancora una volta, commettono meno errori dei colleghi maschi.
Metà errori sono di punteggiatura
“Quello che è emerso e più preoccupa – osserva Grandi – non ha a che fare tanto con ortografia e lessico, le capacità espressive sono in realtà piuttosto omogenee, ma con la difficoltà di costruire contenuti complessi. Un campanello di allarme è il fatto che il 50% degli errori sia relativo alla punteggiatura. Altra evidenza è la poca predisposizione all’uso di frasi subordinate, ulteriore conferma che ciò che manca sia la capacità di maneggiare la lingua in modo articolato. Un’analisi che per quanto mi compete si ferma qui, ma i tanti studi sulle correlazioni tra linguaggio e pensiero aprono altri scenari”.