Dalla fine del primo mezzo secolo della Repubblica, che si vide liquidato per iniziativa giudiziaria, ma anche per viltà di molti protagonisti della politica, l’assetto che aveva garantito decenni di sviluppo per l’Italia, nella realizzazione delle grandi infrastrutture, ha fatto il cammino del gambero rispetto alle scelte di avanguardia degli anni compresi tra il 1950 e il 1970.
Una pregiudiziale ambientalista irragionevole ed ottusa ha via via bloccato il camminano intrapreso, fino a trovare una nuova formidabile leva di appoggio nel moltiplicarsi dei centri di potere e degli organi di giurisdizione amministrativa e di controllo e agli effetti esplosivi della riforma costituzionale del 1999, che ha indicato, ma non regolamentato, gli spazi di riferimento comuni dello Stato e delle Regioni.
Una miscela infernale, quella tra liturgia ambientalista e confusione di competenze e di poteri, che ha deflagrato verso un orizzonte non pensato dai fondatori della Repubblica, quello di una crescita anchilosata, che ha subito di conseguenza in maniera più acuta che altrove i contraccolpi della crisi economica mondiale.
In un passato che appare remoto in Italia fisica fu trasformata dalla presenza di un centro unico di programmazione e di iniziativa: pensiamo al ruolo del Ministero dei lavori pubblici, all’Anas e all’Iri per la realizzazione di una prima grande rete di infrastrutture stradali, aereoportuali e ferroviarie.
Anche esse, allora, oggetto di dura contestazione tra sinistra e tra gli intellettuali radicalizzanti: molti hanno forse dimentico come il padre di D’Alema, allora Deputato del PCI , contestò l’idea stessa della autostrada abruzzese, che ha strappato la Regione e un area circostante a un isolamento secolare definita con disprezzo come un trastullo di asfalto per le pecore.
Oggi il timone dell’ambientalismo poi chiuso, che nulla a che fare con politiche che salvino protezioni nell’ambiente e promozione del territorio, è stato raccolto dai pentastellati che continuano a dire no a qualsiasi grande opera, tutte ritenute come opere del maligno, cioè degli speculatori del cemento e del territorio.
E’ un pregiudizio inaccettabile, che il Paese, che deve rapidamente recuperare in ritardi nel settore delle grandi opere non potrà sopportare a lungo.