Il Governo già da qualche tempo, sulla base del mandato ricevuto dal Parlamento, ha incominciato a mettere mano alle riforme fiscali annunciate in campagna elettorale. Forse non si tratterà del solito maquillage tecnico, volto al tentativo di rendere il Fisco più efficiente e meno burocratico. Tuttavia, occorre di più. Ciò che si chiede veramente è un alleggerimento della pressione fiscale, che renda più sopportabile il prelievo e maggiormente competitive le nostre imprese, ma soprattutto, che renda più credibile la politica di redistribuzione del reddito ad esso riferibile. Ma la scelta di perseguire con audacia e decisione per un sistema fiscale più equo e sostenibile, ascrivibile a principi di equità sociale, necessiterebbe di un inedito modo di intendere la politica.
Se dovessimo chiedere ad un giovane studente di giurisprudenza, quali siano i valori fondanti di una moderna democrazia occidentale come la nostra, probabilmente ci parlerebbe di suffragio universale; di primazia della carta costituzionale; diseparazione dei poteri. Disserterebbe, forse, di massimi sistemi, inerenti alla sovranità popolare, ai diritti e doveri inalienabili del cittadino e di altre questioni note ed arcinote. Parlerebbe sempre,tuttavia, riferendosi ad un cittadino libero, non più suddito, o peggio ancora, servo della gleba. E ad ogni buon conto, nella sua sintetica e manieristica esposizione di argomentazioni, di per sé tutte legittime e corrette, proprie di un rigido dogmatismo accademico, probabilmente ometterebbe di raccontarci proprio dell’essenza più consistente e pregnante del discorso. Tuttavia, quasi certamente, trascurerebbe di enarrarci come, in quello straordinario periodo storico, che passa sotto il nome del secolo dei lumi, correnti di pensiero, senza dubbio, per certuni aspetti diverse, nondimeno, per parto gemellare, sicuramente sorelle, hanno condotto il genere umano a conquistare un nuovo assetto politico-sociale, nella comune ed attuale accezione della figura di un cittadino, libero e consapevole, assunto ad artefice della sua appartenenza al collettivo. Si potrebbe ancora oggi, alla luce delle contingenze quotidiane di questa nostra obsolescente società, sostenere la piena sussistenza di quello spirito originario, sul quale si è fondato il presupposto del contratto sociale? Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus. Dello splendore della Roma antica ci rimane solamente il nome, asseriva Bernardo di Cluny.
Una tra le più espressive argomentazioni di indiscussa levatura morale, circa l’argomento, la rinveniamo in quel canone, di massima ispirazione liberale, secondo cui il perseguimento della felicità è un diritto inalienabile dei popoli. Conseguentemente, ne deriva che sia anche uno specifico dovere dei loro governanti, il garantirlo. Così, almeno, nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, redatta da Thomas Jefferson del 1776. Suggestiva, quanto illuminante enunciazione. In questa sintesi illuministica di sapore americano, la felicità, l’eudaimonia, viene riproposta in un’ottica pubblica, indubbiamente innovativa e rivoluzionaria, andando a definire, in termini di un vero e proprio contratto politico-sociale tra cittadino e governanti, il riconoscimento di un diritto inalienabile per il primo, ed un dovere imprescindibile nell’esercizio proprio della funzione di governo, per quest’ultimo.
Nondimeno, in una diversa parrocchia, un po’ più radicale e democratica, in piena Europa, attingiamo argomentazione da un altro famoso contratto sociale. E qui, disturbiamo Rousseau. Già allora, il nostro Jean-Jacques teorizzava che agli inizi della civiltà umana fosse stato stipulato dagli uomini un primo contratto sociale, viziato però dal fatto che, essendo fondato sulla forza e non sul diritto, potesse raffigurarsi alla stessa stregua di un patto leonino. Il passaggio alla legittimità dell’attuale contratto legittimo delle democrazie occidentali, che vede il popolo in posizione di forza nel conferire legittimità alla sovranità dei suoi governanti, è fondato invece sull’assunto che essa sia esercizio della volontà generale, ed è quindi “inalienabile”, appartenendo essa, solamente al popolo, ed essendo esplicata in funzione di esso.
A questo punto, offriamo al lettore una prima provocazione: potremmo sbagliare se desumessimo che la stessa pretesa tributaria, sia una manifestazione, tra le altre, di quel contratto sociale, che esplicita la volontà del popolo libero e felice a predisporre un prelievo a suo esclusivo e diretto giovamento? Ed è peregrina l’asserzione che i governanti siano legittimati a disciplinarne contenuti e limiti nei termini di una finalità volta al raggiungimento della felicità del popolo e solamente in ossequio ad un patto non leonino? Pur omettendo in questa sede ogni possibile approfondimento collegato ai valori di giustizia e libertà, richiamati nel contesto dei principi espressi nei due postulati sopra citati, è ovvio che la risposta non possa che essere affermativa.
A questo punto, potremmo legittimamente chiederci – seconda provocazione – se l’attuale sistema tributario: primo, corrisponda effettivamente a quanto voluto ed accettato dal popolo; secondo, se sia effettivamente capace di perseguire il suo, diciamo benessere. Felicità, in questo contesto, mi sembrerebbe aspirazione troppo pretenziosa ed utopica, considerate le ben note contingenze odierne. Comunque, qualche perplessità è giustificata, se da più parti si colgono sempre più numerose ed accaniti disappunti sulla pretesa tributaria, che gettano ombre sulla sua adeguata legittimazione.
Non è nostra intenzione improntare in questa sede un dibattito di tipo tecnico sul nostro sistema tributario, che finirebbe, comunque, per nutrire il materiale argomentativo di conforto alle tesi della numerosa platea dei suoi detrattori. Ovviamente, soprassediamo anche sulla domanda se sia formalmente legittima la pretesa tributaria esercitati dagli organi elettivi di questo Paese, che si sono alternati al governo, con schieramenti e presupposti ideologici di diverso colore. La risposta è ovviamente affermativa, nell’ottica della formalità, ovviamente! E non intendiamo nemmeno, in questa sede, provocare il pubblico sull’annosa ed ispida questione circa il pericolo di effetti distorsivi sull’economia reale, conseguenti ad una possibile politica fiscale vessatoria e scriteriata.
Ma quando qualcuno, interpretando una vasta eco del tessuto economico della nazione, anche a livello di vertice, parla di “pizzo di stato”, o di prelievo fiscale “bancomat”, allora, riponendo ogni ideologica contrapposizione di parte, pare legittimo interrogarsi se vi è ancora un patto, un contratto sociale, tra popolo e governanti, che giustifichi la pretesa fiscale, oggi sempre più intrisa di incomprensibili sacrifici, in ambia misura a carico di quella parte della società, che rappresenta la componente più contributiva della nostra economia nazionale.
Parliamo, allora, di quella moltitudine di piccoli e medi imprenditori che hanno reso forte e grande il nostro Paese. Considerando la pressione fiscale che incide sulla loro produzione, con quella che sopporterebbero nelle altre realtà del Mercato comune, c’è da chiedersi dove sia l’uguaglianza tra i cittadini europei, se da quel 1° novembre del 1993, ci si è molto animati ad assicurare una moneta unica e altre centinaia di normative incomprensibili, a volte irrazionali, quasi sempre foriere d’interessi locali di bottega, ma non si è mai provveduto ad armonizzare l’imposizione diretta tra singoli stati membri, al fine di non favorire il realizzarsi di indirette, ma concrete, disuguaglianze tra i cittadini dell’Eurozona? Dov’è la libertà di un popolo, che nell’attuale sonnolenza politica, ingiustificabile e maldigerita, non ha alcuna possibilità ribellarsi dal giogo di una incomprensibile differenza di pressione fiscale tra le diverse regioni di quest’area comune, che cagiona in suo danno, un’evidente distonia economica generale ed di un impari confronto concorrenziale tra imprenditori della stessa area comunitaria? Dov’è la giustizia dello strumento tributario, che non appare per niente partecipato e riconosciuto dalla volontà di tutti i suoi cittadini, ma si palesa sempre più vessatorio? E dove sono le evidenze del welfare, immediata e incontrovertibile moneta di scambio, a misura della felicità, quale controprestazione al prelievo fiscale, unico e possibile conforto ad una pressione così stringente?
Ecco: proviamo a chiederlo a loro. Perché loro, se lo domandano tutti i giorni, ed ogni qualvolta debbano sottrarre alla famiglia ed agli investimenti dell’impresa, più del sessanta per cento del loro guadagno, per finalità pubbliche di cui non è scontato e nemmeno visibile l’immediato ritorno. E se lo domandano ogni volta che per provvedere ad un avviso di accertamento, sono costretti a rivolgersi ad onerosi finanziamenti di terzi, di cui non è scontato nemmeno l’ottenimento, ovvero, ogni volta che, a fronte del pagamento anticipato delle imposte, sulla base di una presunzione futura di reddito tanto ingiusta quanto idiota, non riescono a trovare la motivazione di un giusto rientro, in termini di felicità, nei servizi erogati dallo Stato. Uno stato che, quando si fa prendere la mano da spesucce tanto incomprensibili, quanto imprevidenti, vede nelle tasche del contribuente un facile bancomat, da cui prelevare.
Non intendiamo infilarci in perigliosi percorsi tecnici, per cui necessiterebbero altri spazi ed altri contenuti, richiamando solo l’urgenza di dare risposte coscienziose e responsabili, perché è su questo piano che si andrà a delineare la demarcazione tra la forma di contribuzione di richiamo costituzionale, propria del cittadino e la forma tipica di sfruttamento tirannico del suddito, che è poi motivo di legittimazione del contratto sociale che vige in democrazia.
Affrontare questa annosa questione, in termini avulsi da retaggi ideologici ed interessi di scuderia, necessiterebbe di quel coraggio proprio dello statista dotato di lucida capacità di discernimento ed eccezionale lungimiranza. Però, adesso, il paese reale, reclama a gran voce interventi concreti e visibili, ammorbato da un clima di infelici contingenze economiche, protratte nel tempo da un susseguirsi eccezionale di eventi negativi. Non accorgersene, per la politica, sarebbe un gravissimo errore di percezione ottica verso le esigenze della Nazione. Purtroppo, complici anche le attuali congiunture di recessione economica dell’Euroarea, e le attuali turbative dei mercati e dell’economia in generale, cagionate dai conflitti armati, generatisi alle porte del nostro Paese, non consentono di intravedere tempi ragionevolmente appropriati a scelte così coraggiose.