Si apre la seconda settimana dominata dalle preoccupazioni, ma anche dalle congetture e dagli allarmismi, ingiustificati, per la diffusione del coronavirus.
Una malattia curabile, della quale però si sa tutt’ora poco, e che in un’opinione pubblica stordita dal consumismo e dall’edonismo imperanti, affascinata dal successo, dalla bellezza e dalla ricchezza, risveglia paure antiche, quelle della finitezza dell’esistenza e della sofferenza come aspetto non esorcizzabile della condizione umana.
Da questo evento, che ripropone gli interrogativi irrisolti sul mistero della vita e sulla fragilità di uno sviluppo irrispettoso della natura e spesso indifferente alla dignità della persona, sta emergendo anche quanto sia decisivo per il diritto universale alla salute, il modello europeo della sanità pubblica, dove il nostro si sta dimostrando fra i più efficaci ed estesi.
Un modello, lo si sta verificando, che richiede una guida e un coordinamento unitari che faccia capo allo Stato, e se sia perciò in grado di evitare errori di valutazione e, soprattutto, le improvvisazioni e i protagonismi affiorati in alcune autonomie regionali e locali.
Protagonismi e grammaticazioni, che purtroppo hanno spesso segnato anche la qualità dell’informazione e confermato l’aspetto devastante dei fantasmi creati dai social e che hanno fortemente contribuito a dare un’immagine errata e delirante dell’Italia, quasi come luogo della nuova peste e per questo da evitare, con le conseguenti ricadute sull’economia, a cominciare dal turismo.
Per le sorti politiche e le organizzazioni rappresentative del pluralismo sociale è il momento della responsabilità e della verità, che comporta l’esercizio delle virtù dell’equilibrio e del civismo, come testimonia l’inarrestabile erosione, vedi anche le recenti elezioni suppletive a Roma, di quel partito che irresponsabilmente si era fatto portavoce dei nemici dei vaccini e irrise alla distinzione necessaria fra scienziati e non, fra colti ed incolti, fra competenti ed incompetenti.