giovedì, 19 Dicembre, 2024
Società

Il teatro sociale che restituisce il senso di fratellanza

Intervista a Maria Elena Leone, regista presso il dipartimento di salute mentale di Taranto

Dare voce a chi non ce l’ha, a chi vive nei luoghi della sofferenza dove le istanze restano più facilmente inascoltate. Parte da qui quello che potremmo forse definire una sorta di nuovo umanesimo che, attraverso la scrittura e il teatro, rimetta al centro l’uomo, i suoi sogni e i suoi bisogni interiori, soprattutto all’interno di carceri, periferie degradate o centri di salute mentale. Ce lo racconta la regista teatrale Maria Elena Leone, che dal 2011 collabora con il Centro diurno “Maria D’Enghien” gestito dalla Cooperativa Seriana 2000 all’interno del dipartimento di salute mentale dell’azienda Asl di Taranto, diretto dalla dottoressa Maria Nacci che crede fortemente nel valore del teatro come strumento attraverso il quale raggiungere obiettivi di salute mentale individuale e sociale.

Lei in una intervista ha dichiarato che il posto giusto per fare teatro è in un centro di salute mentale, perché?
Lo è: gli attori in un centro di salute mentale non mentono, sono sé stessi, si offrono con una sincerità spontanea, spiazzante e disperata. Il teatro e la salute mentale si incontrano in un destino comune che è quello di costruire relazioni profonde e autentiche.

Quello di Taranto non è il solo esperimento in questa direzione, vero?
No, siamo davvero tanti, il Csv (Centro di servizio per il volontariato) di Bologna nel 2020 ha fatto una prima mappatura nazionale e quest’anno ha promosso una indagine qualitativa. È emerso che sono 35 i Csv in tutta Italia coinvolti e oltre 173 le organizzazioni che si occupano di teatro e salute mentale. Il 28 maggio 2018 a Bologna c’è stato il primo incontro delle molte realtà presenti sul territorio nazionale, tra cui il “Teatro del Mare”, nell’ambito del convegno “Teatri della salute mentale: sul palco con Basaglia dopo quaranta anni”. Come ha spiegato in quella circostanza la dottoressa Ivonne Donegani, referente del coordinamento dei teatri per la salute mentale dell’Emilia Romagna, l’obiettivo è che questa rete “possa essere riconosciuta sia dal punto di vista sanitario sia culturale come forte testimonianza di quanto le differenze possano rappresentare una grande risorsa”.

Ma perché proprio il teatro?
Diceva Antonin Artaud: “Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle. Quando recito una poesia non è per essere applaudito, ma per sentire corpi d’uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi all’unisono con il mio”. Il teatro è qualcosa che accade tra le persone, in una precisa qualità dell’ascolto: solo dopo un ascolto profondo è possibile pronunciare parole vive. Nella salute mentale il teatro riacquista il suo spazio di verità e spontaneità condivise a scapito dell’artificio e del puro divertissement.

Lo potremmo definire terapeutico?
Maieutico. Il teatro è uno strumento maieutico di liberazione, una straordinaria opportunità di relazione autentica nella quale ci si prende cura gli uni degli altri.

E come viene accolta questa opportunità dagli ospiti dei centri di salute mentale?
Con molto entusiasmo ed impegno. Dal 2012 le produzioni del “Teatro del Mare” sono state replicate con grande successo di pubblico in numerosi teatri e all’interno di convegni e rassegne nazionali dedicate alla promozione del benessere psico-sociale attraverso il teatro. Con orgoglio segnalo in particolar modo la nostra partecipazione al Màt Festival di Modena, organizzata dal Dipartimento di Salute Mentale di Modena diretto dal dottor Fabrizio Starace.

 Da cosa nasce la sua passione per il “teatro sociale”?
Da molti anni si assiste alla necessità di affiancare alla parola teatro gli aggettivi “terapeutico” o “sociale” ed è una tautologia. Non si può ignorare, però, che questa necessità abbia radici profonde nell’esigenza, sentita dalle comunità, di recuperare spazi di ricerca, di bellezza e di partecipazione. Il teatro nella salute mentale credo possa restituire al teatro questa sua originaria dimensione antropologica: l’atto teatrale non è un prodotto, ma l’incontro con un’altra visione del mondo che dice, esprime, evoca. Per rifondare nuovi paradigmi di solidarietà e di fratellanza non abbiamo bisogno di “attori” che recitino una parte, ma di persone che facciano la loro parte, nella costruzione di un nuovo umanesimo.

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