L’Unione Europea comincia finalmente a comprendere, attraverso i propri giudici, come sia necessaria una svolta garantista nei Paesi membri che – al pari del nostro – tendono a sacrificare la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini nel corso delle indagini preliminari.
Mi riferisco ovviamente ai processi penali, ma la questione ha il suo Pendant anche nei processi civili sempre più spesso affetti da difetti delle istruttorie, essenzialmente imputabili al rifiuto dei giudici di ammettere determinate fonti di prova.
Un esempio significativo di tali sacrifici è rappresentato dalla normativa italiana riguardante l’acquisizione e la divulgazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali da parte del Pubblico Ministero: materia sulla quale lo scorso ottobre è intervenuta una sentenza della Corte di Giustizia UE che finalmente imprime una svolta garantista al diritto sovranazionale.
Tale decisione – assunta nello scorso ottobre su una questione di uso dei tabulati telefonici riguardante l’ordinamento Lituano – proietterà infatti la sua ombra anche sul sistema processuale italiano ove il vigente Codice di Procedura Penale stabilisce le modalità con cui le intercettazioni sono acquisite e divulgate.
In particolare, le disposizioni contenute in alcuni suoi articoli limitano le possibilità per la difesa di ottenere copia integrale delle intercettazioni non ritenute pertinenti dal Pubblico Ministero e questa sola circostanza può limitare il diritto alla difesa e al giusto processo, come garantiti dalla Costituzione italiana e dal diritto europeo.
Ora la questione potrà finalmente essere rimessa all’attenzione del giudice sovranazionale, con serie possibilità di ottenerne ragione, anche sulla base della direttiva 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.
Infatti, qualora vi siano dubbi sull’incompatibilità di una norma interna con il diritto europeo, il giudice nazionale ha la possibilità di rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CJUE) attraverso una procedura denominata “rinvio pregiudiziale”.
La Corte emette poi una sentenza interpretativa sulla conformità di quella normativa rispetto ai Trattati europei e la sua decisione vincola pure il giudice nazionale.
L’art. 47 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (CEDEF) stabilisce – come è noto – il diritto a un giusto processo e ad avere a disposizione tutte le notizie necessarie a garantire un’efficace tutela giurisdizionale e limitare l’accesso alle intercettazioni rappresenta una evidente violazione di questo diritto, poiché impedisce a un indagato di difendersi avendo a disposizione le medesime fonti di prova in possesso del proprio accusatore, con conseguenze facilmente immaginabili anche sul piano della parità delle armi fra i due protagonisti del processo penale, non a caso rappresentati anche come duellanti (Cordero).
Dunque, se un giudice italiano dovesse respingere un’istanza volta a ottenere copia delle intercettazioni invocando le norme del Codice di Procedura Penale, senza considerare la potenziale incompatibilità con la CEDF, potrebbe trovarsi in una posizione delicata, perché quello stesso giudice è innanzitutto tenuto a garantire la corretta applicazione del diritto europeo e, in caso contrario, potrebbe nascere una responsabilità dello Stato membro, che anche su di lui ricadrebbe, per mancata applicazione del diritto dell’UE.
Ben venga dunque, prima o poi, la rivoluzione della riforma Nordio – alla quale sembra applicarsi la regola propria di ogni rivoluzione, almeno secondo il pensiero di Lenin (“ un passo avanti e due indietro!”) – ma quel che ora conta è la possibilità per gli indagati di poter evidenziare la tensione tra la normativa italiana sulle intercettazioni e i principi europei in materia di diritti fondamentali, senza correre il rischio di farsi rispondere – dal giudice a cui si domanda la rimessione del problema all’autorità sovranazionale – che la questione posta, rappresentando un’area delicata e complessa, non raggiunge la soglia della rilevanza giuridica necessaria per adottare un’ordinanza di rimessione.
L’eventuale intervento della CJUE potrebbe così portare a una ridefinizione delle norme italiane in materia di limiti alla integrale consegna del materiale probatorio, garantendo una maggiore tutela dei diritti degli indagati, senza necessariamente scomodare il legislatore italiano che in questa materia sembra ogni giorno più condizionato dalle declamazioni dei manettari di ogni ordine e grado.