giovedì, 14 Novembre, 2024
Manica Larga

Benedetta università

C’è un dibattito che viaggia alla velocità delle guerre a bassa intensità. Lento, sotterraneo, eppure sempre presente. Ed è quello su università si, università no. Quest’ultimo, un fronte che si muove sotto le mentite spoglie delle non richieste lezioni di vita.

Flavio Briatore, per esempio, ha sostenuto che “le università sono delle piattaforme per disoccupati”. Se solo il 4% dei laureati trova lavoro, il succo del discorso, perché non vai a lavorare invece di perdere tempo? Della serie, fatti (e facci) un favore!

Su altri orizzonti, Brunello Cucinelli invita a non studiare troppo per “coltivare l’anima”. Al di là delle metafore, il suo ragionamento raffinato è quello di saper trovare un bilanciamento tra i vari aspetti della vita, magari per evitare di fare la fine di quelli che Camilleri definiva “uomini parziali”.

Sicuramente un valido consiglio di vita da parte di un uomo vissuto, soprattutto se preso da angolazioni che restano ancora troppo poco esplorate, ovvero il benessere mentale, la qualità dei luoghi di lavoro, il bilanciamento tra vita personale e professionale per citarne alcuni.

Ora però sorge un dubbio ed è come mai a finire sul banco degli imputati ogni volta è l’istruzione superiore. Per cui, se intendo veicolare un messaggio, del tipo c’è bisogno di incentivare il lavoro manuale (magari perché ne ho bisogno in azienda), allora individuo lo studio quale antagonista nella mia narrativa, una specie di fallimentare panacea per il successo sociale.

La domanda naturalmente è retorica. L’istruzione è un bersaglio assai facile che fa leva sui malesseri dell’istituzione e scava, altrettanto facilmente, nei risentimenti personali di moltissimi. In altri termini, fa presa e si moltiplica per autopoiesi.

Per questo si avverte quella sgradevole sensazione di essere nella favola della volpe e dell’uva. Perché se c’è un problema, e un problema c’è, è che invece lo studio dovrebbe fungere da ascensore sociale, dovrebbe contribuire a risolvere questioni irrisolte come le disuguaglianze, le pari opportunità, l’inclusione. Non andrebbe demonizzato, anzi.

Dimostrano, per esempio, alcune ricerche che mandare il proprio figlio a studiare nelle scuole private, e verosimilmente in università di prestigio a seguire, vale il 35% in più sul salario all’età di 25 anni con una forbice che va progressivamente allargandosi nel corso della vita. Checché se ne voglia dire, studiare non solo fa la differenza ma, nei giusti circuiti, fa tutta la differenza.

Per cui, se si vuole portare al tavolo un utile contributo, sarebbe quello di cominciare a chiedersi come aggiustare un meccanismo rotto per i più, piuttosto che saltarci sopra a furor di popolo.

D’altronde, da imprenditori di indubbio successo ci si aspetterebbe una soluzione a un problema, magari un valore aggiunto condiviso. A maggior ragione se, per esempio, si ambisce a “custodire l’umanità”.

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