lunedì, 16 Dicembre, 2024
Politica

Partecipazione, se non ora quando

La legge delega sulla Riforma Fiscale in discussione in questi giorni alla Camera ha previsto tra i correttivi inseriti dalla commissione Finanze, la possibilità di accedere a una riduzione dell’Ires per quelle imprese che impieghino risorse “in schemi stabili di partecipazione dei dipendenti agli utili”. L’emendamento presentato da Luigi Marattin (Italia viva-Azione) punta così a concedere un beneficio fiscale in tutte quelle situazioni in cui è strutturato il meccanismo di partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. È un primo passo ed un segnale importante sulla strada dell’applicazione degli articoli 46 e 47 della nostra costituzione.

È indubbio che la globalizzazione dei mercati ha sempre più bisogno, a qualsiasi latitudine e longitudine si operi, di coinvolgere e rendere corresponsabili della vita e del destino delle imprese, le cosiddette risorse umane. Negli ultimi anni, prima la rincorsa al profitto per il profitto, poi la crisi finanziaria ed economica, hanno causato tra gli altri drammi un alto tasso di disoccupazione.

Risulta evidente inoltre che la crisi del cosiddetto capitalismo finanziario si potrà superare, incentivando e promuovendo nuove forme partecipative e con la diffusione in particolare dell’azionario tra i dipendenti delle singole aziende.

Oggi il tema è tornato al centro del dibattito culturale e politico perché il sempre più diffuso obiettivo aziendale della ottimizzazione dell’impiego delle risorse umane, richiede necessariamente una crescente partecipazione dei lavoratori dipendenti alla gestione e ai risultati dell’impresa ed anche a seguito delle notizie riguardanti la posizione del nostro Paese nelle graduatorie dei redditi dei lavoratori dipendenti. Per questo il Comitato Scintifico dell’UCID (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) ha salutato con soddisfazione l’iniziativa della CISL per la raccolta di firme,  per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori nelle aziende e la democrazia economia, che punta a dare piena attuazione all’articolo 46 della Costituzione, che recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».

Poiché è ormai unitamente riconosciuto che la risorsa umana è il bene più importante per l’impresa e che l’uomo deve essere al centro della nuova economia, la partecipazione, mai come ora, può diventare fattore di rafforzamento della coesione sociale, della competitività e, soprattutto, di benessere per i lavoratori.
Oggi il tema è tornato al centro del dibattito culturale e politico a seguito delle notizie riguardanti la posizione del nostro Paese nelle graduatorie dei redditi dei lavoratori dipendenti.

Il Comitato Tecnico Scientifico dell’UCID (Unione Cristina Imprenditori Dirigenti) ha da sempre, fin dalla sua nascita, sostenuto la necessità di rendere finalmente operativa la normativa di cui all’articolo 46 della nostra carta costituzionale, cosi come sono state sempre proposte dalla Dottrina sociale della Chiesa.

E questo anche e soprattutto per la realizzazione di una compiuta democrazia economica. La legittimazione democratica infatti scaturisce dalla condivisione delle responsabilità, che eleva il ruolo delle parti sociali dalla storica contrapposizione della lotta di classe ad un’alleanza per la crescita del «Sistema Paese».
Appare evidente che in un moderno modello di sviluppo europeo debba prevalere la tendenza a dare ascolto ai rappresentanti dei lavoratori i quali, avendo la lunga durata del posto di lavoro tra i primi obiettivi, contribuiscono ad allargare la visione pluriennale delle strategie di impresa, rispetto a modelli di totale deregulation che, orientati all’ottenimento di risultati economici immediati, perdono di vista gli obiettivi strategici di medio e lungo periodo.

Né si può dimenticare la politica sociale che caratterizzò la Repubblica Sociale Italiana, che con il decreto legislativo nr. 375 del 12 gennaio 1944, in piena guerra civile, prevedeva l’inserimento di rappresentati dei lavoratori nei consigli di gestione delle imprese. Era la cosiddetta “socializzazione delle imprese”, che doveva poi essere, nel corso del dopoguerra, uno dei capisaldi della cultura della corrente di destra sociale e popolare all’interno del M.S.I..

Successivamente la tematica riemerse come un fiume carsico ogniqualvolta  il clima di lotta di classe, che imperava nel nostro Paese, si andava alleggerendo. Ricorderò solamente che, tra gli altri, l’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio nelle considerazioni finali della sua relazione all’Assemblea della Banca d’Italia del 30 maggio 1998 sostenne «la necessità di sistemi di remunerazione che, agevolando l’adeguamento del costo del lavoro alle condizioni delle economie, alle fasi produttive e alla situazione dell’azienda, possano creare le premesse per un legame sempre più stretto tra interessi del lavoro ed interessi dell’impresa, favorire la competitività e l’occupazione».

Anche Mario Draghi, nel 2011, quando era ancora governatore di Bankitalia e presidente della Bce in pectore, parlava di necessità  di rimuovere gli ostacoli all’attività economica abbattendo i costi di apertura e di gestione delle nuove imprese accresce la partecipazione economica delle nuove generazioni”, concetti ribaditi anche nel 2015, da numero 1 della Bce, quando invitava a “incentivare una partecipazione maggiore del lavoro ed elevando la produttività”.

Nello stesso periodo il governo Berlusconi varò un codice della partecipazione che si muoveva nella direzione di incentivare la partecipazione agli utili dei lavoratori come strumento utile per affrontare la crisi economica e finanziaria e per vincere la sfida della globalizzazione.

Anche il punto 8 della Carta sociale europea sancisce «il diritto dei lavoratori all’informazione, alla consultazione ed alla partecipazione».

Gli organismi della Comunità europea si sono evidentemente preoccupati, proprio come i nostri costituenti, di suggerire un modello non solo pienamente compatibile «con le esigenze della produzione», ma addirittura strumento di coesione sociale e di sviluppo.

Va ricordata infine la raccomandazione del Consiglio europeo del 27 luglio 1992  che invita gli Stati membri a:

  • a) introdurre nelle imprese la partecipazione agli utili o l’azionariato dei lavoratori, oppure una combinazione delle due formule;
  • b) prendere in esame la possibilità di accordare incentivi di ordine fiscale o finanziario per incoraggiare l’introduzione di meccanismi di partecipazione;
  • c) incoraggiare l’uso di formule di partecipazione, agevolando la messa a disposizione di informazioni adeguate.

Oggi il principio partecipativo si pone come parte integrante e fondamentale di quel «Modello renano» che la dottrina considera elemento distintivo del capitalismo sociale europeo in contrapposizione a quello finanziarizzato di tipo statunitense ed anglosassone.

Questo sul piano culturale e dei principi.

Naturalmente però il discorso diventa più arduo quando poi ci si incammina sul terreno accidentato della realizzazione pratica e delle proposte operative.

Il panorama è vastissimo e non c’è nulla o molto da inventare. Basterebbe solamente iniziare questo processo.

La strada resta per la verità ancora tutta in salita, ma il traguardo ora incomincia ad intravedersi.

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