Alessandra Perrazzelli, vicedirettrice generale della Banca d’Italia, durante il suo intervento a un convegno organizzato a Roma dall’Istituto di via Nazionale ha sottolineato che “il tasso di partecipazione femminile al lavoro si colloca ancora su un livello particolarmente basso nel confronto europeo, inferiore di quasi 13 punti percentuali rispetto alla media Ue. È ancora al di sotto di quel 60% che era stato indicato come obiettivo da raggiungere entro il 2010 dall’Agenda di Lisbona e dei traguardi impliciti nell’Agenda Europa 2020 che avrebbero comportato per l’Italia un sostanziale allineamento della partecipazione femminile alla media europea”. “Il divario salariale tra uomini e donne si attesta in media intorno al 10%, un livello solo di poco inferiore a quello stimato per il 2012. Le carriere delle donne sono particolarmente lente e discontinue. La maggiore presenza delle donne nelle società quotate non ha indotto significativi cambiamenti nella composizione dei vertici delle società sottoposte alla normativa sulle quote di genere”, ha aggiunto. “Possiamo pertanto affermare che una parte rilevante dei divari dipende dalla scelta del percorso scolastico. Nonostante le ragazze siano mediamente più brave fin dalla scuola dell’obbligo, queste tendono poi a prediligere indirizzi di studio associati a rendimenti inferiori nel mercato del lavoro. Ciò vale sia per chi decide di conseguire solo il titolo di scuola secondaria superiore sia per coloro che intraprendono studi universitari. Ancora oggi barriere culturali disincentivano troppe ragazze a non cimentarsi con lo studio di quelle discipline, non solo scientifiche, che sono associate a migliori prospettive occupazionali e salariali. Queste barriere comportano un costo significativo per le donne che si manifesta immediatamente dopo il termine del percorso di istruzione: a un anno dalla laurea il divario salariale uomo-donna è già pari al 13%; è del 16% dopo un anno dal diploma, per coloro che decidono di non proseguire gli studi. Queste differenze non si riducono nel corso della vita lavorativa, ma addirittura si accentuano, soprattutto dopo la nascita dei figli”, ha ribadito Perrazzelli. Secondo Perrazzelli “l’esperienza degli altri paesi mostra anche che per favorire la presenza delle donne nelle professioni meglio retribuite e nelle posizioni di vertice, la promozione di figure femminili in ambiti professionali diversi da quelli tradizionali può accrescere la consapevolezza delle diseguaglianze di genere e degli stereotipi che le originano. Anche politiche di impresa che introducano un’organizzazione del lavoro più flessibile, sistemi di welfare aziendale a sostegno della cura dei figli possono facilitare i percorsi di carriera delle donne”. Quindi “promuovere la parità di genere vuol dire innanzitutto sostenere l’uguaglianza, evitare casi di discriminazione e porre rimedio ai fallimenti di un mercato che fatica a sviluppare e ad allocare in modo efficiente le capacità professionali, in particolare quelli femminili. La direzione verso cui si sta andando è quella giusta, ma i progressi sono troppi lenti e ampiamente incompleti”, ha concluso.