La scorsa estate, a ridosso delle ferie agostane, il ministro dell’Ambiente Cingolani ha voluto fissare con Decreto Ministeriale i nuovi “Criteri Minimi Ambientali”, che obbligano i fornitori della Pubblica Amministrazione ad adoperare, in elevate percentuali, la plastica riciclata derivante dalla raccolta dei rifiuti urbani per produrre cassonetti, sacchetti e buste. Tutto nell’ottica di favorire la transizione ecologica, anche se per le aziende può trasformarsi in costi maggiori perché le materie prime seconde già sono arrivate a costare quanto le materie prime, ma in più richiedono costosi ammodernamenti dei processi produttivi. Nonostante le buone intenzioni, però, i nuovi CAM sembrerebbero stati concepiti in maniera tale da non poter essere messi in pratica. Continuando la nostra inchiesta in quello che rappresenta un giro d’affari di milioni di euro in appalti pubblici, questa volta abbiano voluto conoscere il parere dei produttori di buste di plastica.
Dottor Michele Pepe, lei è uno dei titolari della Plastik Fortore Srl, che dal 1976 produce packaging flessibili in polietilene ad alta, media e bassa densità e bioplastica. Cosa pensa di questi nuovi CAM? Sono attuabili?
La sensazione che si ha è che siano stati scritti da chi non se ne intende per niente. Qualcosa che in Italia sta diventando un po’ la regola, sembra che il legislatore non ascolti mai gli addetti ai lavori che quotidianamente si occupano di quell’attività che si accinge a normare. Il risultato è che molti di noi, che ci occupiamo della trasformazione della plastica riciclata in nuovi contenitori, non stiamo partecipando alle gare d’appalto della PA perché non riusciamo a mettere in pratica la nuova direttiva, benché convinti che i principi ispiratori siano più che giusti e condivisibili.
Quali obblighi vi impongono i nuovi CAM?
Per i sacchetti e le buste colorate ci impone di usare il 70% del materiale rigenerato mentre per le buste nere il 90%. Già questa distinzione non la capiamo assolutamente, non sembra giustificata da alcunché. Sarebbe stato giusto, tutt’al più, diversificare le proporzioni di materiale riciclato in base agli spessori dei prodotti e non in base al colore. Come i produttori di cassonetti anche noi dobbiamo utilizzare solo i rifiuti urbani e solo quelli raccolti da Conai ma, come loro, non possiamo riutilizzare il mix indistinto che ci viene fornito dai nostri fornitori. Quando parliamo di buste parliamo di lavorazione di film in micron di spessore. Basti pensare che un capello va da dai 65 ai 78 micron e i sacchetti che noi produciamo partono da 8 micron. Non possiamo usare qualunque materiale per ottenerlo. Noi possiamo produrre sacchetti ad alta e a bassa densità ma non vie di mezzo. Abbiamo bisogno di granulati identificabili e certificati.
Secondo lei quale potrebbe essere una soluzione se la direttiva non cambia?
Si potrebbe pensare a una certificazione rilasciata dai cosiddetti “riciclatori”, gli intermediari che partecipano alle aste di Conai e che poi rivendono a noi i granulati. Questo presupporrebbe da parte loro uno sforzo in più nel differenziare maggiormente i rifiuti, per materia, spessore e colore (le buste gialle con le gialle, quelle verdi con le verdi e così via) e soprattutto nel dividere i vari tipi di materiali (almeno il PEHD con il PEHD e il PELD con il PELD). Naturalmente è evidente che questo si trasformerebbe a sua volta in una maggiorazione consistente dei prezzi e con quello che già costa oggi la materia prima seconda, pari alla semplice materia prima, non so se il gioco potrà valere ancora la candela. Nel tempo, poi, dovremmo anche fare i conti con quanta MPS (Materia Prima Seconda) potremmo ancora avere a disposizione noi produttori di film.