Nisida è l’isola che c’è. E fa bene ricordarlo. Lì ha sede l’Istituto Penale per i Minorenni. Lì Francesca Fagnani ha raccolto le voci che hanno scritto la lettera che ha letto dal palco di Sanremo qualche giorno fa.
Chiede a un giovane detenuto: “E tu, invece, quando scendevi per una rissa, con il coltello in tasca, che cercavi?” Una voce: “Era come a dire, guardatemi voglio esistere anche io”. E ancora: “Vogliamo che la gente sappia che non siamo animali, non siamo bestie, non siamo killer per sempre”.
Devianza giovanile
Non è un tema nuovo per la giornalista romana e avevo seguito con attenzione il lavoro fatto con Il prezzo – I giovanissimi delle “paranze”, un viaggio attraverso la devianza giovanile a Napoli.
La cosa mi interessava molto perché nel mio piccolo ebbi modo di toccare con mano una piccola parte di quella realtà grazie a uno dei più illuminati imprenditori italiani, Vittorio Merloni, all’Associazione Jonathan e ai suoi incredibili educatori, con in testa Silvia Ricciardi e Vincenzo Morgera.
Un modello, il loro, che da 30 anni fa scuola nella rieducazione dei minori lavorando con centinaia di giovani vite a rischio. Per arrivare pronto a quell’esperienza mi ero preparato scambiando qualche parola con il regista Andrea Barzini, che al progetto aveva dedicato un intenso documentario, I giorni buoni.
La scuola
Legge la Fagnani. “Quando ho intervistato adulti finiti in carcere per reati gravissimi ho chiesto loro: cosa cambieresti della tua vita? Quasi tutti mi hanno dato la stessa risposta. Sarei andato a scuola. Perché se nasci in quel quartiere, in quel palazzo o da quella famiglia è solo tra i banchi di scuola che puoi intravedere la possibilità di una vita alternativa a quella già scritta per te da altri”.
La chiave è imparare a pensare. La scuola infatti non è l’isola del tesoro dove scoprire l’ultimo ritrovato per comprare pezzi di felicità, come spesso mi sono sentito ripetere dai miei studenti. Ma è il posto dove imparare a pensare. E “pensare è molto difficile”, spiegava bene Carl Gustav Jung. “Per questo la maggior parte della gente giudica. La riflessione”, sottolinea, “richiede tempo, chi riflette non ha modo di esprimere continuamente dei giudizi”.
Una carezza, la lettera letta dalla Fagnani. Perché costruisce un ponte tra un dentro e un fuori, fra centro e periferie esistenziali; ci ricorda il potere del recupero e dell’emancipazione necessaria a spezzare le catene, togliendo un altro mattone dal muro del giudizio, o peggio ancora, del pregiudizio. Insomma, è impegno civile.