Appena arrivato nel Congo il Santo Padre ha urlato “Giù le mani dall’Africa. Occorre fermare quel colonialismo economico che toglie la dignità ai popoli di questo continente”.
Dopo 37 anni della visita a Kinshasa di San Giovanni Paolo II e dopo l’omicidio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio (ucciso in un’imboscata il 22 febbraio 2021 assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci). Papa Francesco trova un Paese di 95,89 milioni di abitanti con mezzo milione di rifugiati ed oltre 5,6 milioni di sfollati. Gli stupri ai danni delle donne e dei bambini come pulizia etnica e le violenze caratterizzano la vita di questo Stato, che, d’altro canto, ha grandi ricchezze minerarie di oro, diamanti, rame e cobalto, di cui possiede il 50% dei giacimenti mondiali, poi è ricco di legname e riserve idriche. Tutta questa ricchezza è alla mercé di milizie che agiscono indisturbate sul territorio.
Con questo viaggio il Papa riporta all’attenzione del mondo intero l’annosa questione dei Paesi poveri, in particolare di quelli dell’Africa, che vede uno Stato su due a rischio default a causa di un debito ormai fuori controllo.
Dopo Mali e Zambia anche il Ghana è fallito recentemente ed una ventina di nazioni sono in grande difficoltà.
Secondo Chatham House, un think tank britannico, il debito complessivo del continente ha toccato 696 miliardi di dollari. E c’è il rischio che la situazione debitoria possa peggiorare ancora nel corso del 2023.
La guerra in Ucraina con l’inflazione ed il rialzo dei prezzi energetici e alimentari; la crisi alimentare incombe su oltre 140 milioni di persone; la stretta sui tassi di interesse varata dalla Federal Reserve, con il rafforzamento del dollaro, ha provocato l’aumento dei debiti. Il superdollaro ha, infatti, aperto un buco di miliardi di dollari a causa dei tentativi delle varie economie di sostenere le monete locali. Sono stati cosi bruciati miliardi di riserve al giorno. Una montagna di 215 miliardi di dollari di pagamenti del debito in scadenza sono destinati ad aggravare la situazione.
Si prevede che alcuni paesi saranno chiamati a ristrutturare il proprio debito. L’agenzia di rating S&P ritiene che diverse economie africane attualmente risultano molto vulnerabili, oltre quelle che hanno già dichiarato default.
Circa il 60% dei Paesi a basso reddito è ad alto rischio o è già in sofferenza, e circa 20 mercati emergenti hanno un debito insostenibile, si rischia il verificarsi di una catena di insolvenze di portata storica. Un numero crescente di nazioni avrà bisogno di rinegoziare e ridurre il proprio debito estero, poiché l’apprezzamento del dollaro rende i rimborsi più difficili. Pertanto le economie avanzate dovranno predisporre programmi per aiutare quelle più povere e questi interventi dovranno essere rapidi e forti.
Secondo la dottrina sociale cattolica il debito internazionale dei paesi poveri costituisce al tempo stesso una complessa questione politica ed una sfida morale di portata gigantesca.
Il debito internazionale è complesso, infatti, per la sua dimensione e per la sua portata, riguardando il benessere di milioni di persone e di molti paesi, di istituzioni finanziarie e di finanziatori privati.
Ed il lato morale del debito internazionale implica ugualmente che siano definiti con precisione doveri, diritti e responsabilità di un insieme di individui e istituzioni. Evocare gli aspetti morali del debito internazionale è innanzitutto, d’altro canto, anche domandarsi come questo sia stato contratto, da chi siano state prese le decisioni cruciali, quali siano le istituzioni sulle quali oggi grava la responsabilità maggiore della sua soluzione e a quali criteri morali bisogna riferirsi.
Sotto questo aspetto la dottrina cattolica applica due grandi principi: quello della giustizia (giustizia contrattuale e giustizia sociale) e quello dell’opzione preferenziale per i poveri. Il Cardinale Roger Etchegaray qualche anno fa scrisse; “il pagamento del debito non può essere ottenuto al prezzo del fallimento dell’economia di un paese e nessun governo può moralmente esigere da un popolo delle privazioni incompatibili con la dignità della persona”. Ed aggiunse: “in un mondo di accresciuta interdipendenza tra le Nazioni un’etica di solidarietà allargata contribuirà a trasformare i rapporti economici (commerciali, finanziari e monetari) in relazioni di giustizia e di reciproco servizio”.
Al momento, invece, il debito internazionale resta un serio ostacolo allo sviluppo umano. Anche perché molti paesi indebitati sono obbligati a destinare le loro scarse risorse al rimborso dei loro creditori anziché ad investire per il riscatto del proprio popolo e,quindi, ad esempio, nella sanità o nell’educazione.
Si pensi che attualmente tra i paesi più poveri quelli molto indebitati presentano dei tassi di mortalità infantile, di malattia, di analfabetismo e di malnutrizione molto più elevati rispetto a quelli di altri paesi in via di sviluppo. Molti paesi poveri più indebitati dell’Africa pagano interessi sui debiti superiori alla somma necessaria alla realizzazione dei principali progetti di lotta contro la malnutrizione, le malattie prevedibili, l’analfabetismo e la mortalità infantile. Se i governi investissero questo denaro in sviluppo umano piuttosto che nel rimborso dei loro crediti, si stima che 3 milioni di bambini potrebbero vivere oltre il quinto anno di età e si potrebbero evitare un milione di casi di malnutrizione.
Per giunta la comunità finanziaria mondiale considera inaffidabile un paese pesantemente indebitato e di conseguenza di fatto lo espelle dai mercati finanziari internazionali, oppure lo condanna a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i paesi ricchi.
La conseguenza è che il debito si paga con l’assenza di infrastrutture (strade, scuole, ospedali) con cui si potrebbe al tempo stesso lottare contro la povertà e creare le condizioni per avviare lo sviluppo, che, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto.
Invece le istituzioni finanziarie internazionali usano il loro ascendente per obbligare ad accettare politiche di stabilizzazione e aggiustamento strutturale (PAS) di austerità che spesso hanno effetti disastrosi proprio per i poveri, sia nell’immediato che a lungo termine.
Infatti, aumentando le tasse, riducendo il ruolo dello Stato nell’economia, comprimendo le spese sociali per ridurre il deficit di bilancio si ha come conseguenza, tra l’altro, inevitabile di licenziare i dipendenti del settore pubblico, di far chiudere le imprese nazionali, di ritardare, se non rendere impossibile, i nuovi investimenti.
Inoltre le PAS, unitamente alla concorrenza globale, nella maggior parte dei casi, fanno diminuire i salari dei lavoratori e peggiorare le loro condizioni di lavoro fino a creare dei veri e propri “laboratori di schiavi”. Le donne e i bambini, principale mano d’opera di questi laboratori, sono i più toccati da questi salari da fame e dalle lunghe ore di lavoro effettuate nella completa assenza di norme igieniche e di sicurezza.
Le PAS, oltretutto, si fondano su teorie economiche considerate universali, e per questo applicate spesso in maniera uniforme. Può quindi capitare che l’applicazione delle PAS, in termini di calendario e di cronologia delle tappe, non tenga sufficientemente conto della cultura politica ed istituzionale di un paese e della sua capacità di assorbire gli aggiustamenti. I poteri pubblici sono allora costretti a scegliere quali settori della spesa pubblica tagliare e quali salvare. Sfortunatamente, i poveri ed i più vulnerabili sono i meno adatti a difendersi in questa battaglia.
E così spesso sono proprio queste politiche, che dovrebbero avviare lo sviluppo dei popoli più poveri, a renderli per sempre dipendenti e schiavi dei paesi più ricchi.
Oltretutto violentandoli nella propria storia, nella propria cultura, nelle proprie tradizioni e sfigurandoli nella loro identità.