Occupàti, come siamo, a chiederci se abbia ragione Paragone, Di Battista o Di Maio, non abbiamo tempo per pensare a cose di minor conto. Per esempio a quello che succede nel Mediterraneo, al di là del via via di disperati tra i quali non è mai arrivato alcun terrorista, checché ne dicano i veri terrorizzanti della destra sovranista.
Così, mentre sta cambiando l’equilibrio geopolitico sotto la finestra di casa nostra, l’Italia sta sfoderando tutta la sua irrilevanza nello scacchiere internazionale.
I fatti sono noti.
Abbiamo perso il controllo di quel che succede in Libia. Berlusconi, a suo modo, era riuscito a stringere rapporti ottimi, anche se pittoreschi, con Gheddafi. Poi la scellerata scelta altrui di destabilizzare il regime del Colonnello senza pensare a come sostituirlo non trovò in Berlusconi un fiero oppositore come sarebbe stato giusto aspettarsi. Il Cavaliere nel 2011 mollò il Colonnello al suo triste destino.
E l’Italia, per l’ennesima volta, si prese l’etichetta di Paese voltagabbana, un pessimo viatico per il futuro del nostro ipotetico ruolo in Libia.
Chi si sarebbe più fidato dell’Italia? E forti di quest’onta ci siamo per anni abbandonati a non avere una politica estera intelligente sulla Libia.
Il fallimento delle strategie di destabilizzazione volute da altri Paesi europei, come la Francia, avrebbero potuto e dovuto dare forti argomenti al nostro Paese per reinserirsi da protagonista nella crisi di una Libia avviata verso la guerra civile.
Arriva sempre il momento in cui devi decidere da che parte stare.
E se la comunità internazionale riconosce il regime di Tripoli e non quello di Bengasi tu devi sceglierti il ruolo da giocare.
O diventi il più grande difensore di Al Serraj, non lesinandogli mezzi ed armi e magari chiedendogli in cambio una seria politica di controllo dell’emigrazione con regole civili, oppure ti metti strenuamente a perseguire una politica di riconciliazione avviando in Italia una conferenza di pace che non duri due giorni ma sia un tavolo permanente in cui tu eserciti tutto il tuo ruolo di grande diplomazia internazionale per tessere alleanze e rimuovere ostacoli, bloccando la guerra civile e smascherando i tentativi di altri Paesi europei di dire una cosa alle Nazioni Unite e praticarne un’altra in Libia.
In questi 9 anni l’Italia non è stata capace di fare nulla di serio per prendere nelle proprie mani lo scettro della crisi libica e guidarla a soluzione. E dire che per 5 anni ha avuto anche la guida della politica estera europea…
Col disimpegno progressivo degli Stati Uniti dallo scenario del Mediterraneo e in assenza di una gestione europea della crisi, chi ha potuto si è dato da fare e siamo arrivati ai giorni nostri.
Un Paese guidato da un autocrate integralista islamico, che fa il comodo suo nella NATO di cui fa parte, comprando armi dalla Russia, giocando una partita propria nella Siria, senza rispettare i patti perfino con gli Stati Uniti, sta diventando il protagonista del futuro della Libia.
Si illudono coloro che pensano che Erdogan si limiti ad inviare truppe per aiutare il governo legittimo di Al Serraj a vincere la guerra civile contro il generale Haftar.
La Turchia ha un disegno espansionistico ambizioso e punta ad essere una potenza regionale nel Mediterraneo e nel Medio Oriente.
Non ci sarebbe nulla di preoccupante se questa strategia facesse parte di un disegno concordato in sede NATO, con il beneplacito dell’Unione europea e degli Stati Uniti. E invece non è così.
Erdogan persegue i propri obiettivi cinicamente, con spregiudicatezza e incurante anche degli squilibri che sta creando nell’Alleanza atlantica e che potranno avere conseguenze pericolose. Una Turchia più forte nel Mediterraneo cercherà di condizionare le scelte della Nato e di piegarle ai propri interessi.
E l’Italia sta a guardare. Fuori dai giochi, incapace di esprimere una proposta e di esercitare un ruolo da protagonista il nostro Paese si è condannato all’irrilevanza. Come se non avesse nulla di cui preoccuparsi.
Quando la guerra esploderà, con tutta la sua devastazione, le nostre coste si riempiranno non di migranti economici ma di profughi che fuggono dai bombardamenti e ai quali l’accoglienza è dovuta. E quando la guerra finirà chiunque sia il vincitore l’Italia dovrà patire per tutelare i suoi interessi economici, prevalentemente petroliferi, in Libia.
E Tripoli sarà per noi… “bel suol di dis-onore”