Il mondo è diviso in due. O forse no. Perché in entrambi in casi, dalle Sardine agli studenti di Hong Kong da un lato e coloro che hanno riempito le fila dei populismi a trazione sovranista, dall’altro, la richiesta è unica: il diritto al futuro.
Ma quale futuro? Mentre questi ultimi, impauriti dalle turbolenze che ogni crisi porta con sé, chiedono un ritorno nostalgico a un passato che faccia leva su identità più o meno fissate nel tempo come muri per arginare l’ignoto, vedi la guerra delle tariffe solo per fare un esempio, dall’altro quei venti sono invece risorsa per una rinnovata (e rinnovabile) energia.
Ed è qui che può cambiare il vento. Da un lato quello che ha gonfiato le vele della nota attivista europea, Greta Thunberg, che a New York è arrivata in barca a vela come messaggio planetario per costruire un mondo inclusivo e sostenibile dove a essere preservato sia il capitale intergenerazionale; dall’altro quello della marcia indietro che ha di certo portato la disoccupazione a livelli minimi in UK come USA, ma senza redistribuire ricchezza.
Abbiamo bisogno di un approccio più ricco, perché senza giri di parole, il futuro e il suo diritto passano da qui. Il punto chiave è la prospettiva. Il sistema capitalistico è rotto, è sotto gli occhi di tutti, e va riformato.
La riforma del sistema capitalistico, inteso come sistema dinamico e complesso i cui attori siano impegnati nella generazione di modelli di crescita con l’obiettivo di promuovere il benessere collettivo, abita in un nuovo contratto sociale.
Questo significa attuare, in chiave politica, il passaggio dalla ricerca di rendite di posizione a una visione di lungo periodo che abbia come obiettivo la co-creazione di valore, la condivisione del suo godimento e la reale contendibilità del sistema.
Naturalmente, questa lista passa per nuove leggi, regole, che abbiano l’obiettivo di cambiare il comportamento delle persone e quindi il modo di stare in società. Ma, se il codice a monte che determina l’output a valle è viziato da un enorme problema etico, quando si riuscirà a interrompere il circolo vizioso in atto?
In altri termini: come si fa a legittimare un nuovo codice se chi fa le leggi o gestisce importanti pezzi di società non dà il buon esempio? Non si rischia invece di legittimare, per via di comode peculiarità culturali, il permanere dello stato attuale delle cose? La domanda, ovviamente, è retorica.
In concreto: la cattiva gestione di aziende come Alitalia o Banca Popolare di Bari tanto per restare alla cronaca recente, non rischiano di inviare il messaggio che tanto, alla fine, tutto è possibile? Non sarebbe invece necessario porsi un limite?
Solo nel segno di quel limite che individui l’interesse superiore nel benessere di ciascuno può infatti esistere il senso di un nuovo contratto sociale teso a indirizzare una nuova convivenza civile lontana dal livellamento al ribasso che sta minando il diritto al futuro delle nuove generazioni e di fatto riempiendo molte valigie. È una questione di leadership.