Il sorpasso dei pensionati sugli occupati c’è stato. Anche se di sole 205 mila unità, a livello nazionale il numero delle pensioni erogate agli italiani (pari a 22 milioni e 759 mila assegni) ha superato la
platea costituita dai lavoratori autonomi e dai dipendenti occupati nelle fabbriche, negli uffici e nei negozi, in tutto 22 milioni 554 mila addetti. I dati elaborati dall’Ufficio studi Cgia –Associazione artigiani e piccole imprese -, di Mestre, riferiti al 2022, mostrano una situazione variegata. Dalle situazioni più difficili del Mezzogiorno, alle diversità del Centro-Nord – con le eccezioni di Liguria, Umbria e Marche – i lavoratori attivi, anche se di poco, sono più numerosi delle pensioni erogate dall’Inps e altri istituti previdenziali. “Nel Sud, invece, il sorpasso è avvenuto”, osserva la Cgia, “gli assegni dei pensioni infatti, superano le buste paga dei lavoratori di un milione e 244 mila unità”. Uno squilibrio complicato da gestire.
Crollo nascite, le conseguenze
In linea di massima i motivi di questo divario tra lavoratori e numero di pensioni vanno ricercate nella forte denatalità che, da almeno 30 anni, sta caratterizzando il nostro Paese. “Il calo demografico ha concorso a ridurre la popolazione in età lavorativa e ad aumentare l’incidenza degli over 65 sulla popolazione complessiva”, spiega l’Ufficio studi, “si segnala che tra il 2014 e il 2022 la popolazione italiana nella fascia di età più produttiva (25-44 anni) è diminuita di oltre un milione e 360 mila unità (-2,3 per cento). Per quanto concerne il risultato ‘anomalo’ del Sud, va segnalato che, rispetto alle altre ripartizioni geografiche d’Italia, il numero degli occupati è sensibilmente inferiore”.
Gli enigmi del lavoro
I dati benché oggettivi, tuttavia non rivelano sempre la realtà. In Italia infatti esistono sistemi paralleli che possono dar luogo a una doppia interpretazione.
“Il risultato di questa analisi”, osserva la Cgia, “è sicuramente sottodimensionato; ricordiamo, infatti, che in Italia ci sono poco più di un milione e 700 mila occupati che dopo essere andati in pensione continuano, su base volontaria, a esercitare ancora l’attività lavorativa in piena regola”.
Crisi produttiva e spesa pubblica
Il calo della forza lavoro crea squilibri in tutto il settore produttivo, in particolare in quello immobiliare, dei trasporti, moda e HoReCa. “Un Paese che registra una popolazione sempre più anziana potrebbe avere nei prossimi decenni seri problemi a far quadrare i conti pubblici”, evidenzia l’Ufficio studi, “in particolar modo a causa dell’aumento della spesa pensionistica, di quella farmaceutica e di quella legata alle attività di cura e assistenza alla persona. Va altresì segnalato”, annota la Cgia, “che con una presenza di over 65 molto diffusa, alcuni importanti settori economici potrebbero subire dei contraccolpi negativi”.
Meno giovani, banche contente
C’è un paradosso che spiega bene la complessità del calo demografico che si riverbera in settori molto diversi ma strategici per il Paese.
“Con una propensione alla spesa molto più contenuta della popolazione più giovane, una società costituita prevalentemente da anziani”, sottolinea la Cgia, “rischia di ridimensionare il giro d’affari del mercato immobiliare, dei trasporti, della moda e del settore ricettivo.
Per contro, invece, le banche potrebbero contare su alcuni effetti positivi; con una maggiore predisposizione al risparmio, le persone più anziane dovrebbero aumentare la dimensione economica dei propri depositi, facendo così “felici” molti istituti di credito”.
Cercasi disperatamente
Le imprese da alcuni anni hanno un problema in più. Il difficile reperimento di personale.
“Il progressivo invecchiamento della popolazione italiana sta provocando anche un altro grosso problema”, illustra la società mestrina, “Da tempo, ormai, gli imprenditori – non solo al Nord – denunciano la
difficoltà di trovare sul mercato del lavoro personale altamente qualificato e figure professionali di basso livello. Se per i primi le difficoltà di reperimento sono strutturali a causa del disallineamento che in alcune aree del Paese si è creato tra la scuola e il mondo del lavoro, per le seconde, invece, sono posti di lavoro che spesso i nostri giovani, peraltro sempre meno numerosi, rifiutano di occupare e solo in parte vengono “coperti” dagli stranieri”. Una situazione che con la congiuntura economica negativa alle porte potrebbe essere destinata a rientrare, sebbene in prospettiva futura la difficoltà di incrociare la domanda e l’offerta di lavoro rimarrà una questione non facile da risolvere…
Servono nascite e occupati
Tra le cose da fare, elencate dalla società di analisi socio economiche, per contrastare il calo delle nascite e il conseguente invecchiamento della popolazione è necessario mettere a punto una serie di interventi
di medio-lungo periodo. “Come ha avuto modo di sottolineare anche la Banca d’Italia”, ricorda la Cgia, “è indispensabile, in particolar modo, potenziare le politiche mirate alla crescita demografica, ad esempio
aiuti alle giovani mamme, alle famiglie, ai minori; serve inoltre allungare la vita lavorativa, almeno per le persone che svolgono un’attività impiegatizia o intellettuale, incrementare la partecipazione femminile nel mercato del lavoro e, infine, innalzare il livello di istruzione della forza lavoro che in Italia è ancora tra i più bassi di tutta l’Unione”.
Le situazioni più “squilibrate”
A livello territoriale tutte le regioni del Mezzogiorno presentano un numero di occupati inferiore al numero degli assegni pensionistici erogati. In termini assoluti le situazioni più “squilibrate” si verificano in Campania (saldo pari a -226 mila), Calabria (-234 mila), Puglia (- 276 mila) e Sicilia (-340 mila). Nel Centro-Nord, invece, solo Marche (- 36 mila), Umbria (- 47 mila) e Liguria (-71 mila) presentano una situazione di criticità. “Per contro, tutte le altre sono di segno opposto: le situazioni più “virtuose” – vale a dire dove i lavoratori
attivi sono nettamente superiori alle pensioni erogate”, fa va presente l’Ufficio studi, “si scorgono in Emilia Romagna (+191 mila), Veneto (+291 mila) e Lombardia (+ 658 mila). A livello provinciale, infine, le situazioni più compromesse che si registrano al Nord riguardano Biella (-14 mila), Savona (- 18 mila) e Genova (-38 mila)”.
Le realtà più virtuose
Pur tra le difficoltà invece, ci sono città che segnano una svolta positiva. “Tra le più virtuose scorgiamo Bergamo (+83 mila), Brescia (+111 mila) e Milano (+299 mila). Nel Centro”, prosegue la società
mestrina, “spiccano le difficoltà di Macerata (-14 mila), Terni (-22 mila) e Perugia (-24 mila), mentre dal saldo con segno positivo spicca il risultato riferito alla provincia di Roma (+ 275 mila). Nel Mezzogiorno, infine, le situazioni più squilibrate riguardano Palermo (- 80 mila), Reggio Calabria (-86 mila), Messina (- 94 mila), Lecce (-104 mila) e Napoli (-137 mila). Tra tutte le 38 realtà provinciali del Sud, solo due presentano un saldo positivo: esse sono Ragusa (+ 8 mila) e Cagliari (+ 10 mila)”. Anche nel Centro spiccano le difficoltà.
È il caso fi Macerata (-14 mila), Terni (-22 mila) e Perugia (-24 mila), mentre dal saldo con segno positivo spicca il risultato riferito alla provincia di Roma (+ 275 mila). Nel Mezzogiorno, infine, le situazioni più squilibrate riguardano Palermo (- 80 mila), Reggio Calabria (-86 mila), Messina (- 94 mila), Lecce (-104 mila) e Napoli (-137 mila). Tra tutte le 38 realtà provinciali del Sud, solo due presentano un saldo positivo: esse sono Ragusa (+ 8 mila) e Cagliari (+ 10 mila).