mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Società

Abuso di ufficio, incubo e freno per i sindaci

I sindaci  e gli altri pubblici amministratori esternano sempre più spesso la loro preoccupazione per la facilità con la quale, nell’esercizio delle loro funzioni, possono rimanere intrappolati nelle maglie della giustizia per il tanto discusso  reato di abuso di ufficio contemplato dall’articolo 323 del codice penale.
La preoccupazione è dovuta alle conseguenze immediate che scaturiscono in caso di condanna in primo grado anche non definitiva, e cioè la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali.

Il Governo ritiene  necessario un intervento legislativo per migliorarlo e chiarirne i limiti di confine, non esclusa, una depenalizzazione o, addirittura, la sua soppressione. Le modifiche e le integrazioni operate nel tempo, infatti, ne hanno ampliato le fattispecie, con le debite conseguenze sulla sua applicazione. Pure il titolo ha subito radicali modifiche come si evince dal raffronto col testo originario di cui al R.D. 19 ottobre 1930 n. 1398 dell’ articolo 323 “Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”, e l’attuale, apparentemente più semplice: “Abuso d’ufficio”. Sono state complessivamente ben quattro gli interventi legislativi avvenuti negli anni 1990, 1997, 2012 e 2020,

L’originario testo era il seguente: “Il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a lire diecimila”. Tali sanzioni pecuniarie sono state, ovviamente, rivalutate nel tempo e moltiplicate per 8, dall’art. 7 del D.L.C.P. 21 ottobre 1947, n. 1250), poi per 50, da lire ventimila a lire
quattrocentomila, dalla legge 12 luglio 1961, n. 603 e, successivamente moltiplicate per 5 ai sensi dell’articolo 113 dalla legge n. 689/1981.”Modifiche al sistema penale”, meglio nota come legge sulla
depenalizzazione.

L’attuale testo così recita: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (quest’ultima figura inserita dalla legge n. 86 del 1990) che, nello
svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità
(così modificato dall’articolo 23, comma 1 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni nella legge 11 settembre 2020, n. 120) ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di
un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. (Aggravamento di pene di cui all’articolo 1, comma 75, lett. p) della legge 6 novembre 2012, n. 190, in precedenza prevista nei limiti edittali di sei mesi e tre anni)

Nel secondo comma, aggiunto dall’articolo 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234, si afferma che: “La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”.

La VI Sezione penale della Corte di Cassazione è intervenuta più volte con le sue sentenze per chiarire alcune delicate questioni. Tra esse la nota confortevole è data dalla recente sentenza n. 13136 del 6 aprile 2022 nella quale si afferma che “non sussiste abuso d’ufficio quando si esercita un potere discrezionale”.

Altro intervento resosi necessario da parte del legislatore è stato il ricorso all’articolo 323/bis “Circostanze attenuanti”, inserito con legge n. 86/1990 e legge 27 maggio 2015, n.69 , art. 1, comma 1, lett. i) n. 1 e 2, nonché all’articolo 323/ter “Causa di non punibilità” inserito dall’articolo 1, comma 1, lett. r) della legge 9 gennaio 2019, n. 3.

Resta, comunque, l’unanime e urgente pressione da parte dei 7.904 sindaci d’Italia sulla necessità di una revisione armoniosa di questa delicata fattispecie di reato per renderla meno ingarbugliata nella sua interpretazione, osservanza e applicazione, qualora non diversamente configurabile o eliminabile come reato dal nostro ordinamento giuridico.

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