Emma è una consuler psicologica online che ogni mattina si sveglia, veste i propri abiti sportivi, raccoglie i capelli in una coda alta e accende il tapirulan. Emma si mette a correre e accede al suo spazio virtuale, dove fornisce consulenza emotiva a chiunque la contatti, destreggiandosi tra il fattore umano che vuole realmente aiutare il prossimo e il rating, le recensioni. Bilanciare le due cose non è affatto semplice, perché non tutti hanno realmente bisogno di aiuto e, si sa, nel mondo virtuale è tutto un po’ ovattato. Altri, invece, vorrebbero la più totale attenzione a discapito di quello di cui hai bisogno tu.
Emma corre, ascolta le persone e all’occorrenza preme il tasto di “SOS” in casi più o meno reali di emergenza. Emma corre e cerca di farti vedere l’inverso della medaglia, di farti ragionare sul fatto che le tue convinzioni siano unilaterali, e che sì, è un lavoro, ma a te ci tiene e sei importante. Ignorando sé stessa.
Tapirulan è un film diretto e interpretato da Claudia Gerini e parla di traumi. Inizia e termina seguendo il tipico percorso giornaliero di una persona che fa fatica a sopravvivere. Lo si evince dalle prime sequenze, dalla musica nuova, moderna, movimentata. Lo si capisce dalle vetrate che danno una panoramica oggettiva e asettica del mondo, dove varie persone costruiscono il proprio presente. Una finestra quasi distaccata sulla vita degli altri, mentre la tua di vita rumina pensieri inespressi, accumulati in un angolo disordinato dell’appartamento a malapena inquadrato dalle telecamere. L’inizio è sempre nuovo e famigliare, così come ormai è noto a tutti il concetto di smart-working: ti alzi, pensi alla routine mattutina, ti colleghi, fai quello che devi fare e non sai mai quando finisci. Il mondo fuori sembra solo un mostro da sconfiggere, tant’è che cerchi di approfittare della tecnologia e ordinarti la spesa e quant’altro con l’ausilio di un telefono, facendo affidamento su un contatto umano limitato. Perché il mondo esterno è troppo complicato. Il buongiorno e la buonasera, concetti fondanti della nostra società, fanno paura.
Quando cominci a vedere Tapirulan sembra che stai guardando la solita e noiosa storia: una donna, un lavoro, storie strampalate, la personale agenda quotidiana delle cose da fare, gli obbiettivi da raggiungere. La vita di chiunque. Ma poi cominci a conoscere Emma: una donna non giovanissima che si destreggia nei compiti quotidiani, che si affida a integratori, vitamine, proteine e cardio. Cardio che vorrebbe praticare nel suo magico parco sotto casa, quello che osserva tutti i giorni, ma a cui rinuncia sempre. E allora cominci a vedere anche il vecchio: la ricerca costante di realizzazione nell’aiutare altre persone, intraprendendo specifici percorsi pur di farlo nel modo corretto, pensare prima ai compiti, alle prestazioni, all’esterno. E fare finta che la tua persona non sia nell’agenda, che non esiste. Un argomento molto vecchio: il trauma.
Emma non è buona: rifiuta sua sorella, all’oscuro di molte cose, lasciando in cantina il buon vecchio dialogo. Ritiene di agire nel giusto affrontando il dramma di un ragazzo che non vuole costituirsi, per poi viverne le conseguenze. Cerca di aiutare una donna vittima di violenze, e si sente quasi parte del suo vissuto. Cerca di accompagnare un ragazzo nel suo percorso di accettazione di genere, ma poi non sa bene che dire quando arrivano i lividi. Salva un uomo in un momento tragico, mettendo in mezzo anche esperienze personali, per poi finire per far sfumare i confini tra “terapeuta” e “paziente”.
Emma non è cattiva, la sua quotidianità è quella descritta all’inizio. Emma non ha un fine turno, risponde sempre. Emma continua a correre nel suo gelido appartamento guardando con sofferenza l’esterno. Emma vive di tragiche pillole sparse chissà in quale posto del mondo, dispensa consigli, affronta le sue giornate nel modo più scientifico possibile. Vive il suo mondo fatto di regole, dove anche il sesso ha una sua funzione.
Molto presto il registro cambia: la musica, le luci, gli occhi di Emma inizialmente indifferenti. Una voce sempre posata e controllata che gradualmente diventa struggente. Alza i toni, si mette quasi a piangere ma ancora non ci riesce. Sospiri nel sottofondo, lievi, pesanti, ponderati.
La sorella l’ha trovata, e vuole aiuto per sé stessa e per il loro padre, che altro non è che la causa di tutta questa eterna bolla di niente. E si sa, a volte basta veramente una goccia. Emma resiste, ma le gocce continuano a cadere.
Emma continua a lavorare, continua a cercare di aiutare, scansa i memorandum del dottore e i suggerimenti del supervisore sulla possibilità di allontanarsi per un po’ da quell’ambiente. Senza capire che quell’ambiente, in quel momento, è la terapia. Si cominciano a intravedere quelle tracce di un passato tormentato: gli occhi gonfi, la musica, le cicatrici interiori e sui polsi, gli accenni di esperienze pregresse ai pazienti, gli obiettivi non raggiunti dichiarati da un gelido assistente vocale.
Il trauma ha un suo percorso che può durare anni, mesi o ore. Inizia sempre con la normalità, prosegue con una goccia di troppo, goccia che si trasforma in un fiume, in un momento di scompenso dove nemmeno il più resistente dei mobili può ritenersi salvo, un momento in cui i confini diventano irrilevanti e nessuno ha più un ruolo. Un momento dove il terapeuta diventa paziente. E si conclude in una fase di confronto emotivo, fisico o anche solo metaforico, per poi lasciare spazio alla speranza. La vita va avanti. E poi ricomincia, ricomincia sempre.
Emma ci riesce ad uscire di casa. Ci riesce a correre fuori all’aria aperta. Quanto durerà? Quante ricadute vivrà? Quanto correrà? I suoi pazienti accolgono i suoi consigli, agiscono, vanno avanti. Ma quanto durerà? Sono tutte domande destinate a non trovare risposta. Perché anche se il finale ha connotazioni positive, nessuno può garantire niente.
La mente è fragile, si costruisce un mondo per mantenere una determinata forma di lucidità, crea giustificazioni per tutto. Anche per comportamenti non prettamente professionali. Ma il succo di Tapirulan è che bisogna sempre fare i conti con la propria esistenza, una, due, 1000 volte. Un trauma sarà sempre un fedele compagno di vita.