mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Società

Si muore quando si esce dal carcere

Tutti sanno che le prigioni sono un posto infame, dove il degrado personale, la violenza, la sofferenza sono dietro l’angolo. E non c’è verso di uscire da questo labirinto, dove quasi sempre ci si perde. Talvolta, ma molto raramente, può anche servire a qualcosa di buono. Ricordo un giovane ugandese che durante la mia visita continuava a fissarmi negli occhi, visibilmente imbarazzato, ansioso, resistente. Gli chiesi se c’era qualche problema. Lui, in uno stentatissimo inglese/francese, mi disse che era la prima volta nella vita che vedeva un medico e che qualcuno si stava prendendo cura di lui. Non riusciva a capire, dopo una vita di violenza come ciò fosse possibile. Oggi, dopo anni di tossicodipendenza, è uscito ed è diventato un operatore di una importante comunità terapeutica. Aiutare gli altri è diventato il suo lavoro. Ce l’ha fatta. Ma non sempre va così.

Quando ho cominciato a lavorare in carcere come medico, una delle prime cose che mi precisarono fu quella che non avrei dovuto occuparmi del dopo la scarcerazione, perché quello che succedeva fuori dalle mura non era compito nostro. La persona scarcerata, all’uscita avrebbe dovuto recarsi ai servizi socio-sanitari e chiedere. Io non ritenevo che il limite delle responsabilità fosse rappresentato da un muro, bensì dal contratto morale che noi attuavamo con le persone che avevamo in cura. Purtroppo però una cieca ottusità dirigenziale da “condominio di periferia”, ben lontana da questi problemi, ma ancora molto diffusa, impedisce di costruire percorsi post carcerari che sono essenziali per la sopravvivenza di questi giovani. Finché la Sanità e le comunità territoriali non sapranno correggersi non cambierà mai nulla. I volti e le storie di questi nostri giovani, morti perché incapaci di affrontare la ritrovata libertà, sono ancora visibili su alcuni social. Foto di ragazze bellissime scattate in periodi di buona, che sarebbero ancora tra noi, se solo fossero stati aiutati. Ecco alcune  loro storie, per non dimenticarle.

S., 30 anni, era una persona con un disperato bisogno di affetto. In carcere sempre la prima ad avvicinarsi e a cercare un contatto. Anche solo visivo. Era una presenza forte e silenziosa. Accusata di aggressione, ripeteva che si era dovuta difendere dall’aggressione di un mondo intriso di droga e di tanto alcol. Nessun contatto con la famiglia al Nord da più di dodici anni, dove lei non voleva tornare. Molto suscettibile, S. litigava sempre con le agenti e ogni osservazione la faceva sentire offesa. Ce la stava mettendo tutta. Raccontava la sua vita così provata che fin da giovanissima l’aveva costretta a vivere per strada con il suo cane. La notte di Natale avrebbe dovuto leggere una sua poesia con le altre compagne e si era anche confessata, ma, inaspettatamente scarcerata e non avendo altre possibilità, ritornò sulla strada. A causa dell’inverno freddissimo era stata accolta presso la Croce Rossa, ma poco dopo ritorna in strada dove subisce in pochissimo tempo un rapido e progressivo degrado. Aveva ricominciato a bere alcolici, la droga dei poveri. Piena di graffi e di lividi, non chiedeva nulla oltre al rispetto per le sue scelte, al massimo accettava un po’ di tabacco, una tisana calda, una serata al cinema per sfuggire, almeno per qualche ora, al freddo. In una sua rara confidenza ci disse che quando stava peggio non voleva che i suoi amici o conoscenti la vedessero così. A febbraio contrae una brutta polmonite e, seppur ricoverata, muore in pochi giorni. Unica consolazione. era riuscita a ritrovare il suo cane che aveva perso. Ora restava solo un funerale, tristissimo, da fare in piena pandemia e coprire le spese della cremazione.

T., 21 anni. Il giorno prima che uscisse dal carcere l’educatore penitenziario si preoccupa perché non aveva dove andare e non aveva un soldo. Lei aveva una grande paura. Sperava che all’uscita dal carcere non ci fosse “quello lì’”, altrimenti, diceva, “va a finire male”. Non voleva tornare a casa per vergogna nei confronti della madre, brava lavoratrice, ma scoraggiata dopo aver lottato tutta la vita contro con il sui “drago”, la droga.  Non dimenticheremo mai l’ultimo giorno di detenzione e il giorno successivo, appena liberata, avrebbe di nuovo scelto la droga con una dose fatale, dopo una vita di lotta.

Na., 32 anni, anche lei una esistenza molto complicata. Dopo l’uscita dal carcere viene accolta in una casa-famiglia, ma le antiche amicizie l’avevano indotta a tornare a consumare alcool, malgrado si fosse disintossicata. Tra le tante violenze subite e agite, tanto da farla entrare e uscire dal carcere molte volte, c’era anche quella intra familiare, di cui conservava traccia con una cicatrice sul volto, che copriva con una ciocca di capelli. In carcere lavorava e aveva ripreso un po’ di sicurezza in sé stessa. Aveva degli affetti. Una volta uscita era stata per poche settimane ospite di una casa-famiglia da dove veniva allontanata poco dopo per “comportamento inadeguato”. Dopo pochi giorni decede in un casolare diroccato e isolato.

Ni., 37 anni. Dopo una vita fatta solo di droga e carcere muore lo scorso agosto suicida e in costanza di detenzione. Durante gli ultimi giorni di vita aveva minacciato più volte di volerla fare finita mentre cresceva la sua rabbia contro tutti. Ormai non usciva più dalla stanza. Poi la trovano, troppo tardi.

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