I maialini Mangalitza, conosciuti anche con il nome di maialini pecora per il loro caratteristico pelo lungo e ricciolino, che gli conferisce un aspetto particolarmente simpatico, nonostante le eccezionali caratteristiche organolettiche delle loro carni, erano destinati all’estinzione. Originari dell’Ungheria, che nel ‘73 li dichiarava razza protetta, dal 2014 devono molto della loro sopravvivenza a Fabrizio Nocci, un bravissimo allevatore della tenuta Villa Caviciana a Bolsena, oggi proprietà del Fai.
Questa particolare razza suina, per costituzione genetica, possiede un altissimo tasso di grassi omega3, che se aiutato da una alimentazione come quella studiata da Fabrizio, a base soprattutto di rarissime nocciole, può raggiungere addirittura una percentuale del 72%. Il che equivale a dire che mangiare del maiale o del pesce può essere equivalente.
Abbiamo deciso di raccontare questa storia, perché, per una manciata di chilometri che divide la tenuta dall’Umbria e dalla Toscana, questo allevamento modello non riceve dalla regione Lazio i bonus che le altre Regioni riconoscono agli allevatori, circa 100 euro a capo. Disparità decise dagli Enti Locali che lasciano davvero perplessi se è vero che le biodiversità e le eccellenze italiane andrebbero protette e sostenute, non penalizzate. L’allevamento di Fabrizio, che oggi conta più di mille Mangalitza, è da considerarsi una rarità da tanti punti di vista. Oltre ad essere tra gli allevamenti più grandi in Europa per numero di capi, insiste su una area di quasi 200 ettari tra boschi e prati bellissimi, dove gli animali possono vivere nel loro ambiente senza costrizioni di cattività, correre e riprodursi in maniera naturale. Nulla in comune con gli allevamenti intensivi per i quali questa razza sembra non essere adatta, forse per le sue origini che lo vogliono derivante dall’incrocio tra il maiale e il cinghiale.
L’ampia percentuale di massa grassa del Magalitza è la causa della sua quasi estinzione. I consumatori lo considerano scarto, anche se è molto più salutare ad esempio della soia tanto osannata dai salutisti. Di base, “il grasso di Mangalitza contiene il 54% di omega3 e una bassissima percentuale di colesterolo – spiega Fabrizio -. La vita semi-brada e il regime alimentare da me sperimentato in questi anni concorrono a rendere il lardo particolarmente buono e ancora più consigliato per chi ha problemi di trigliceridi e colesterolo alti. Un grasso morbido che si scioglie già a 37 gradi, dopo solo pochi secondi che si trova sulla lingua“. Buonissimo, ma molto meno conveniente del tradizionale maiale bianco, in cui lo “scarto” è minore. La corteccia di grasso dei Mangalitza raggiunge, infatti, i 7-8 centimetri di spessore, ma può arrivare anche a 20.
Per quanto riguarda il sapore, nulla regge il confronto, neanche il più famoso Pata Negra iberico, che ormai tutti conoscono. Ci si augura, quindi, che quella Mangalitza presto sia riconosciuta razza autoctona per rientrare nelle iniziative di recupero e di tutela delle risorse genetiche animali nazionali e nelle azioni di qualificazione e di valorizzazione che, riattivando le filiere locali e i circuiti brevi, rafforzano la cultura tradizionale della produzione e della trasformazione locale. Peraltro Fabrizio Nocci, oltre a dedicarsi con uno scrupolo esemplare all’allevamento assicura un trattamento delle carni dopo la macellazione attentissimo a evitare l’uso di conservanti e di affumicazione, scorciatoie poco salutari per garantire la conservazione. Da qui l’alta qualità dei prodotti, a cominciare dall’ineguagliabile prosciutto. Che potrebbe e dovrebbe diventare un fiore all’occhiello del “made in Italy” in questo settore e imporsi come prodotto top in tutto il mondo.