Il congresso costituente del Pd della prossima primavera arriverà con circa 10 anni di ritardo. Nelle politiche 2013, appena sei anni dopo la fondazione, il Pd perse in un colpo 3 milioni e mezzo di voti rispetto al 2018. Il campanello d’allarme non scattò. Da allora il partito si è avviluppato in una spirale di scissioni a destra, a sinistra e al centro, paralizzato da correnti diventate repubbliche autonome ed è diventato un tritacarne di segretari silurati nel volgere di pochi mesi. Unica costante, la presenza continua al governo, se si eccettua il periodo giugno 2018-settembre 2019. Poteva mai un partito del genere costruire un vero argine al populismo dei 5Stelle e aggregare una coalizione per contrastare il centrodestra?
Addossare soltanto a Letta la colpa di questo fallimento è ingeneroso. Le responsabilità sono di tutti, anche di quelli che dal Pd se ne sono usciti, a torto o a ragione.
Quando è stato chiamato a togliere le castagne dal fuoco, dopo le dimissioni di Zingaretti, Letta ha sbagliato a non porre come condizione lo scioglimento di tutte le correnti e l’apertura del partito all’esterno, alla società innanzitutto per ascoltarla. Il Pd è diventata un’oligarchia autoreferenziale sorda ai problemi sociali e soddisfatta dei rituali di una sinistra salottiera e schizzinosa.
Partito autoreferenziale
Ha continuato a guardare al proprio ombelico, a considerarsi il migliore, a gestire ampia fetta di potere centrale e locale alimentando anche clientele. Nel frattempo ha perso definitivamente i contatti con strati sociali sempre più sofferenti che il Pd lo vedevano solo in televisione e non più sul territorio.
Così una larga fetta dell’elettorato, un tempo appannaggio della sinistra, deluso e disorientato si è rivolto altrove. I più emarginati soprattutto al Sud hanno ceduto alle sirene demagogiche dei 5 Stelle, lavoratori autonomi in affanno, artigiani e commercianti si sono rivolti alla destra sociale il cui messaggio e linguaggio è apparso più attento e comprensibile di quello distante e confuso del Pd.
Identità confusa
Senza un’identità precisa il Pd ha deluso anche ceti produttivi che non amano l’assistenzialismo e ha perso appeal verso chi fa del merito un valore centrale nella vita democratica. In compenso, il Pd ha continuato a parlare lo stantìo linguaggio del politically correct, ad affrontare temi gravissimi come l’immigrazione e la sicurezza a colpi di slogan.
Da ieri sembra iniziare un percorso di esercizi spirituali che dovrebbe durare fino a Febbraio e scegliere il nuovo segretario. I primi segnali di questa riflessione non sono incoraggianti. Nella Direzione sono riecheggiati massimalismi e retoriche antiche, critiche contro il famigerato mercato che sembravano ormai sepolte dalla storia. Come se fosse stato il “mercato” a impedire al Pd di destinare al Reddito di inclusione risorse adeguate per sostenere le fasce più deboli della popolazione. Poi i 5 Stelle si sono inventati il reddito di cittadinanza hanno stravolto il meccanismo di sostegno e ne hanno fatto la base elettorale della loro sopravvivenza politica.
Tutto da rifare
E c’è ancor nel Pd qualcuno che pensa di far rinascere il partito inseguendo i 5 Stelle invece di andare a togliere al partito di Conte il terreno sotto i piedi riuscendo a parlare seriamente alle famiglie in difficoltà.
Deve sciogliersi un partito del genere? Si, sarebbe meglio sbaraccare tutto e creare un nuovo soggetto politico, una sinistra moderna, senza spocchia e paraocchi che dia risposte adeguate serie ai problemi sociali.