Parafrasando il “Roma locuta causa finita” della giustizia canonica sembrava di poter dire la stessa cosa, letta in minuscolo, sulla missione romana di Beppe Grillo per ricondurre all’ordine e all’obbedienza la turba rissosa dei parlamentari pentastellati.
I primi segnali ci dicono però che l’obiettivo sembra solo parzialmente raggiunto.
Continua il braccio di ferro, più o meno esplicito, tra coloro che vorrebbero consolidare il rapporto con il partito democratico, quelli che sognano il ritorno alle origini, quelli della corsa solitaria del Movimento, senza contaminazione con altre forze politiche, e quelli ancora che reputano più coerente con gli obiettivi del partito il recupero dell’alleanza con la Lega.
Tra queste così contraddittorie posizioni Di Maio, benché riconfermato nel suo ruolo di capo politico da Grillo, rischia di fare la fine del re travicello o, nel migliore dei casi, quella di un leader assoggettato al controllo dell’organo collegiale che dovrebbe essere presto costituito.
Un punto di leva per la stabilizzazione interna al M5S e la stabilità del governo, che oggi naviga a vista, potrebbe essere rappresentato dal nuovo contratto di programma di cui ha parlato Grillo e che dovrebbe essere negoziato per gennaio prossimo.
Sarà, questa, se ci sarà, l’occasione per capire quali siano le scelte programmatiche sulle quali dovrebbe rincalzarsi la maggioranza. Non, come sembra, con la costruzione di un senso di marcia comune, ma con un contratto che, per definizione, stabilisce un rapporto temporaneo fra soggetti che restano non solo distinti e distanti ma potenzialmente alternativi.
Per queste ragioni il PD finora aveva mostrato diffidenza verso l’idea del contratto.
Sembra che ora voglia superare tali riserve nel disperato tentativo di costruire una nuova sinistra che comprenda e metabolizzi il Movimento 5 stelle.
Un’impresa quasi sovraumana, ma staremo a vedere.