Certo, a ricordare le parole di Decimo Giunio Giovenale “A Roma tutto si compra”, si rischia di animare la fiamma di scetticismo e dubbio, a volte metodico, che dovrebbe ardere in ognuno di noi. Soprattutto se il pomo della discordia giace in un’ala delle torri dell’EUR, progettata da Cesare Lencini negli anni ’60. Qui sorgerebbe la sede dell’autorità europea anti corruzione, qualora Roma venisse preferita a Berlino e Varsavia.
E come darci torto, d’altronde? Senza scadere, però, nella media mediocrità della polemica istituzionale, un inesauribile assedio in cui si cerca di scagliare, a priori e a prescindere, cannonate di rabbia e disagio contro le porte dei palazzi del potere. Un modus operandi tanto cara ad un certo modo di fare politica e informazione nell’ultimo decennio.
Ecco, evitando di scivolare giù per questo scosceso e inelegante dirupo è innegabile come la candidatura dell’Italia sollevi reazioni diverse. Saremmo in grado di rappresentare la lotta alla corruzione europea? Proprio noi che abbiamo affrontato il fenomeno ben oltre la sua cinica soglia fisiologica? Proprio l’Italia che ha visto tremare le fondamenta delle proprie istituzioni sotto i colpi non metaforici di una guerra allo Stato da cui ancora dobbiamo del tutto riprenderci. E capirne bene la dinamica, perché ad un certo andrà fatto.
La risposta, presentata sulle pagine de “Il Messaggero”, di Raffaele Cantone oggi procuratore capo di Perugia e già alla guida dell’ANAC è ferma e positiva: “Portare a Roma la sede della futura agenzia europea antiriciclaggio sarebbe un doppio riconoscimento per l’Italia: intanto perché siamo il paese che in questi anni ha prodotto la normativa più avanzata a livello internazionale E poi ma vorrei dire, soprattutto, perché siamo il paese della lotta alla mafie”.
Se spostiamo l’obbiettivo dal “dubbio” al “messaggio” la posizione del procuratore appare piuttosto condivisibile. Che senso avrebbe, nella vita di uno Stato come in quella di un individuo, vivere ciò che abbiamo vissuto, affrontare ciò che abbiamo affrontato senza che il proverbiale tunnel non porti ad un’immagine riforgiata di noi? Tagliare un traguardo simile non sarebbe sinonimo di incorruttibilità futura, anzi. L’Italia sarebbe osservata come mai prima d’ora, nella maggior parte dei casi da scrutatori costantemente in attesa dell’ennesimo passo falso, di un’altra macchia su una già non proprio splendente armatura.
Non correre il rischio, però, sarebbe ancora peggio. Non appoggiare questa candidatura sarebbe come non togliersi dalla coscia un cilicio di penitenza che rischia di danneggiare qualsiasi cosa incontri. Un inutile danno per un corpo già provato dalla giusta punizione ma anche da una severissima flagellazione autoinflitta. Lasciamoci guarire, o per lo meno, diamoci questa possibilità.