La ricerca di un nuovo equilibrio tra lavoro, famiglia e vita personale. Ma anche una profonda insoddisfazione per la precarietà, i bassi salari, una carenza di sostegni, di welfare e di prospettive migliori per chi lavora. Così il numero delle dimissioni volontarie degli ex lavoratori italiani è arrivato ad una cifra record e inaspettata: nel 2021 si sono registrati quasi 2 milioni di persone che hanno detto addio alla propria occupazione. Un numero rilevante, e in soli 12 mesi, per l’esattezza nel 2021 le dimissioni volontarie sono state 1.925.371. Numeri che emergono dai dati del ministero del Lavoro sulle comunicazioni obbligatorie. Un balzo del 33% rispetto al 2020 e del 12% sul 2019. Le statistiche illustrano un fenomeno in crescita e che tocca tutte le fasce di età. Un sentimento trasversale che unisce diverse generazioni nella disaffezione al lavoro. Durante la pandemia il numero degli under 40 che ha deciso di licenziarsi è aumentato del 26%.
Le “grandi dimissioni”
Il fenomeno indicato nel mondo come “great resignation” – grandi dimissioni – come idea di fondo parte dall’America dove oltre la metà dei lavoratori (56%) motiva le dimissioni con la retribuzione come motivo principale. L’inflazione fa salire lo stipendio, ma non copre le spese, tra queste quelle assicurative e sanitarie, e quindi si cambia professione anche per un aumento del 5% in più. Oppure sì accettano nuove offerte che includano benefit come maggiore flessibilità, assicurazione e migliore sicurezza.
Il caso Italia
In Italia lo scenario è diverso. C’è chi cerca quel maggior equilibrio tra vita privata e lavoro. Chi non crede più alle ambizioni legate ad un lavoro gerarchizzato basato su impegno e produttività, e soprattutto c’è chi lascia perché l’occupazione non concede più possibilità di crescita economica, di soddisfazione professionale e di carriera. In altri versi troppo lavoro a tempo determinato, una precarietà dilagante e anonima, con scarsi incentivi e nessuna possibilità di migliorare la propria professione e il livello economico.
Precarietà e povertà
Quel modello di occupazione che per decenni ha plasmato i lavoratori italiani, che aveva come impianto tradizionale la prospettiva di “fare” carriera, una maggiore remunerazione e conquistare una leadership si è arenato, finito nelle secche dei lavori e “lavoretti”. Tema su cui i sindacati puntano i piedi come linea rossa della riforma previdenziale in aiuto dei giovani che, tra precarietà e assunzioni a singhiozzo, avranno dopo i 67 anni un assegno pensionistico basso poco sopra la pensione sociale. Se le ambizioni di migliorare il livello occupazionale hanno sostenuto un sistema dagli anni 50 agli anni 2000, oggi l’idea di produttività fa acqua perché non finalizzata ad una effettiva crescita. Il record di dimissioni sono il frutto di questa precarietà dei rapporti di lavoro.
Dimissioni al buio
Un fenomeno ancora più problematico in Italia sono le dimissioni al buio. La percentuale di chi lascia senza avere altre possibilità è in crescita. Insomma fa più paura l’idea di ritrovarsi impantanati nella precarietà del mercato del lavoro che perdere un impiego. La quota di insoddisfatti è anche questa da record, l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. E i giovani lasciano senza avere nuove offerte.
Retribuzioni basse
I salari sono bassi e quasi il 60% dei lavoratori ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata al lavoro svolto. Le indagini statistiche ufficiali confermano questa situazione di stallo e disaffezione. Negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue in Italia si sono ridotte del 3,6% in termini reali (al netto dell’inflazione), mentre in Germania sono aumentate del 17,9% e in Francia del 17,5%.
Un futuro insicuro
Le dimissioni sono poi un fenomeno trasversale che coinvolge tutte le fasce d’età. Il racconto alla base di questo addio è l’insicurezza. Il 70% dei lavoratori si sente meno sicuro rispetto a due anni fa con una percentuale che sale al 72,0% tra gli operai e al 76,8% tra le donne. Il futuro ha le sembianze negative della imprevedibilità e di difficoltà crescenti, con impatti rilevanti sulla propria vita quotidiana. Una corsa ad ostacoli dove il lavoro non aiuta più a spiccare il giusto salto, a superare le difficoltà e raggiungere migliori obiettivi. L’impiego che si ha non paga abbastanza, non dà le certezze del passato, così da luogo di soddisfazione oggi il lavoro è fonte di tensioni.
Richieste e mancate risposte
Il fenomeno delle dimissioni è stato scandagliato per comprenderne le ragioni e le possibili soluzioni. La questione retributiva assume il maggior impegno, oltre il 90% dei lavoratori vorrebbe retribuzioni più alte, l’86,5% più servizi di welfare aziendale su ambiti come la sanità e l’assistenza per i figli, il 75,2% un maggiore supporto nel rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza, l’istruzione dei figli. Insomma garanzie che però le imprese e lo Stato (tranne in alcuni rari casi) non riescono a dare. Inoltre in un contesto di crisi aggravato da pandemia, caro energia, inflazione e guerra, ogni richiesta appare oggi impossibile da esaudire. O, forse non tutte, visti gli elevati livelli remunerativi di manager di Stato e i risultati operativi positivi poi realmente ottenuti.
La svolta necessaria
Se tremila medici hanno lasciato gli ospedali pubblici, se due milioni di lavoratori hanno presentato dimissioni volontarie in un anno, non è possibile far finta di nulla e dare la colpa al “mercati”, e congiunture negative nazionali e internazionali. Bisogna decidere una svolta e attuarla anche in tempi rapidi. La situazione è già di emergenza e peggiorerà. Possibile fare una sintesi dei mali ma anche di come uscirne.
Come cambiare rotta
Servono contratti stabili, così come è necessario investire economicamente sui lavoratori e la loro formazione. Bisogna recuperare fondi dai troppi incentivi al non fare nulla che vengono sottratti alle politiche attive del lavoro. Ad esempio, il Reddito di cittadinanza , da promozione al lavoro si è trasformato in incentivazione alla poltrona. Sottraendo miliardi di euro che vanno dirottati a migliorare le condizioni salariali di chi lavora. Serve più welfare aziendale, e aiuti in situazioni di vita difficili. Bisogna aumentare le imprese che puntano sugli strumenti del welfare aziendale. Sono necessari più servizi per rispondere alle necessità dei lavoratori, e tra questi quei programmi di welfare “su misura” fatti di servizi e supporti personalizzati che sappiano cogliere i bisogni del singolo lavoratore. Si tratta di un cambio di passo e una svolta radicale che dovrebbe essere al centro della riforma del lavoro e della previdenza, due temi ed emergenze nazionali che oggi sono rimaste drammaticamente ferme. E perdere altro tempo significa creare ogni anno un esercito di persone senza prospettive che si esercita al salto nel buio.
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