C’è stato un tempo in cui il suono del modem 56k aveva il sapore di futuro. Una porta di ingresso al mondo del World Wide Web divenuto poi per molti il World Wide Wait, vista la lentezza delle connessioni e le difficoltà di fare quello che avremmo potuto quando arrivò il tempo del Web 2.0.
Dalla semplice fruizione passiva di contenuti prodotti da altri si aprirono, infatti, le porte della produzione dei contenuti, delle possibilità di interazione e dei giganti che ci avrebbero messo le mani sopra, ovvero Google poi diventata Alpabeth, Amazon, Facebook oggi Meta e Apple.
La chiave dei dati
La gallina dalle uova d’oro sarebbero stati i nostri dati, risorsa talmente preziosa che di fronte alla necessità di ridefinire le regole per il loro trasferimento fra Stati Uniti ed Europa, Zuckerberg ha in settimana alzato le barricate minacciando di chiudere le sue piattaforme in Europa, qualora non gli sia concessa la possibilità di archiviare i nostri dati sui server americani.
Il Web tra utopia e realtà
Un mondo molto diverso dalla concezione originaria di Tim Berners-Lee, scienziato britannico che il Web lo inventò con spirito libertario, un posto dove sarebbe stato possibile per i ricercatori scambiare informazioni.
Tuttavia, nell’utopia è finita che l’uomo ci ha messo lo zampino e sporcato quella promessa democratica attraverso la possibilità che ognuno di noi oggi ha di creare contenuti, ma su piattaforme altrui, ovvero quelle dei giganti del Web.
Web 3.0: un nuovo affare per i soliti noti?
La blockchain, ovvero una rete di computer distribuita il cui flusso dei dati non è salvato in server di terzi parti ma direttamente nei nodi della infrastruttura formata dai nostri computer connessi tra loro, ha ridato fuoco alla fiamma ideologica che animò quella stagione ormai lontana. Così, oggi il nuovo trend è diventato dare il benvenuto al Web 3.0, ovvero Internet basato sulla tecnologia blockchain, la stessa su cui girano le monete virtuali come il Bitcoin.
Il tema, però, solleva più di qualche domanda perché, se da un lato è vero che nessuno ama l’idea che qualcun altro possa fare affari sulla nostra pelle ovvero utilizzando i nostri dati, per molti la fragilità tecnologica unita ai grandi investimenti fatti da alcuni grandi venture capital, che in questo vedono il nuovo grande affare targato Silicon Valley, fanno sollevare più di un sopracciglio.
L’ennesimo hype?
Come andrà a finire è presto per dirlo. Alcuni ci vedono la possibilità per i consumatori di tornare in possesso dei propri dati; altri solo una bolla di sapone destinata a scoppiare in un nulla di fatto. Senza infine tralasciare il vero convitato di pietra di questa faccenda, ovvero l’aspetto regolatorio, considerata la complessità di regolamentare a livello centrale ciò che per definizione è distribuito senza confini territoriali.
Di certo c’è che quando si tratta di sicurezza tutti vogliamo avere le nostre rassicurazioni, la certezza di essere in buone mani e di non essere esposti ai quattro venti. Magari come è capitato a coloro i quali con i Bitcoin hanno sciupato interi patrimoni.