venerdì, 15 Novembre, 2024
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Le foibe: una ferita aperta della storia italiana

“Conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra”. È questo il fondamento della Legge n.92 del 30 marzo 2004 con cui il Parlamento italiano ha ufficialmente riconosciuto il 10 febbraio come il Giorno del Ricordo delle migliaia di morti e profughi tra il 1943 e il 1945.

Una operazione di pulizia etnica

Dopo l’istituzione del Comitato Nazionale per la Liberazione della Jugoslavia del 29 novembre 1943, i tribunali improvvisati che ne derivarono emisero centinaia di condanne a morte per i rappresentanti del Partito Nazionale Fascista ma anche per funzionari, dipendenti pubblici, insegnanti, sacerdoti considerati potenziali nemici del futuro Stato comunista Jugoslavo che s’intendeva creare. I miliziani del generale Tito misero in atto arresti ed esecuzioni, infliggendo una morte brutale o costringendo all’esodo migliaia di civili di lingua e di etnia italiana, persino a guerra finita. Lo storico Raoul Pupo, tra i massimi studiosi dell’esodo giuliano-dalmata e del massacro delle foibe, stima che le vittime in Venezia Giulia, nel Quarnaro e nella Dalmazia fossero comprese tra le 3.000 e le 5.000; invece l’emigrazione forzata, avvenuta tra il 1945 e il 1956, avesse riguardato tra le 200 mila e le 350 mila persone, cifre altamente significative considerate le dimensioni ridotte dell’area istriana.

 La testimonianza di “Ninni” Radecchio

“Dopo giorni di dura prigionia, fummo condotti verso una collinetta dell’Arsia legati da un unico fil di ferro. Ci fu appeso sulle mani un sasso di 20 chilogrammi e fummo sospinti verso l’orlo di una foiba”. Con queste drammatiche parole uno dei pochi italiani sopravvissuti al massacro delle foibe, Giovanni Radeticchio, ricorda quel terribile giorno: “Un partigiano mi obbligò a gettarmi sparandomi contro ma il proiettile spezzò il fil di ferro che legava la pietra e quando mi gettai nella foiba il sasso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Subito dopo la caduta fu gettata una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi contro una roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna dove rimasi per quattro giorni e quattro notti”. Una salvezza la sua che ha quasi del miracoloso, quasi che qualcuno dovesse sopravvivere per darcene testimonianza, altrimenti difficilmente si sarebbe potuto immaginare l’entità di un tale orrore.

I grandi “inghiottitoi”

“Foibe” è una forma dialettale utilizzata nell’area giuliana, che deriva a sua volta dal latino fŏvea (fossa, cava), con cui si indicano le depressioni carsiche a forma di grande conca chiusa, derivate dalla fusione di più doline, sul fondo delle quali si apre una spaccatura che assorbe le acque, tra Trieste e la penisola istriana e che possono raggiungere i 200 metri di profondità. Dopo quei fatti storici ha assunto il significato più estensivo di fosse comuni per l’occultamento dei cadaveri delle vittime di rappresaglie militari e di assassinii politici avvenuti in quell’area nell’ultima fase della seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra.

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