Presidente, la ministra Cartabia afferma che la riforma delle carceri è una priorità di questo Governo. Lei concorda con le conclusioni della “Commissione per l’innovazione penitenziaria” presieduta dal professor Marco Ruotolo?
Condivido pienamente la divisione in tre macro-aree di intervento: la prima relativa agli interventi attuabili fin da subito, nell’arco di questa legislatura; la seconda relativa alla riforma del regolamento, ormai vecchio di venti anni, facilmente realizzabile e la terza, relativa alla revisione normativa. Puntare su questa differenziazione di interventi mette nella possibilità di dare subito segnali concreti.
Il sovraffollamento rimane sempre un problema drammatico?
Sì, i dati dicono che la popolazione carceraria conta 54.278 detenuti su 47.416 posti disponibili. Ma il problema più grande è costituito dalla somma di questo problema con quello che la detenzione resta di fatto sostanzialmente un tempo vuoto. Ora poi, al primo e al secondo problema si è aggiunta l’ansia che deriva dal distanziamento imposto dalla pandemia. Anche questo finisce per rappresentare un sovraccarico di pena.
L’Italia ha già ricevuto richiami dal “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene inumane o degradanti” per le condizione delle nostre carceri, alcune davvero fatiscenti. Cosa osta alla costruzioni di nuovi edifici?
È indubbio che degli interventi in questa direzione vadano fatti, ma è più facile adattare spazi inutilizzati piuttosto che procedere a nuove costruzioni che impattano con i tempi impiegati per le opere pubbliche e le decisioni dell’amministrazione penitenziaria. Di solito ci vogliono circa 10 anni. Per me la soluzione è completamente diversa. Per reati sotto i tre anni si dovrebbero prevedere, non tanto pene diverse, quanto misure diverse, di supporto e controllo alternativi fuori dalle carceri. Penso ad esempio al reintegro del bene danneggiato oppure ai lavori di pubblica utilità. Questo aiuterebbe moltissimo allo svuotamento degli istituti. Lo definirei una sorta di “welfare controllante”.
Un’altra spia che qualcosa non va è l’alto tasso dei suicidi. Non è possibile garantire un maggiore supporto psicologico ai detenuti?
Lei ha ragione, solo lo scorso anno ne abbiamo registrati più di uno a settimana. Di questo incolpo il sistema che non fornisce questo supporto fin dal primo momento. I suicidi avvengono quasi sempre all’inizio o alla fine della pena, anche il reinserimento nella vita sociale può spaventare. Dobbiamo imparare dagli errori e ogni pena deve rappresentare un progetto ad personam e da subito, non dopo quattro mesi come è adesso. In alcuni casi è rivelato davvero troppo tardivo.