venerdì, 15 Novembre, 2024
Società

La vita non è mai un peso

Per millenni, il rapporto con la morte è rimasto fondamentalmente immutato: essa era al tempo stesso familiare, vicina e presente nella quotidianità.

Nel nostro tempo, invece, la morte fa paura al punto che non vogliamo più pronunciarne il nome.

Per questo Philippe Aries nel suo “Storia della morte in Occidente”, definisce la morte del passato “morte familiare”, mentre la morte di oggi “morte selvaggia”, perché oggetto di divieto e di vergogna, tanto che i bambini ne sono tenuti sistematicamente lontano.

Alla morte, oltretutto, non viene assegnato solamente un significato imbarazzante. Essa ne ha molti altri, come scriveva Fausto Gianfranceschi nel suo “Svelare la Morte”: “come paradigma, cioè, dei limiti invalicabili, come immagine della corruzione dell’esistente, dell’impossibilità della pienezza terrena, come segno del male connaturato all’umano; per converso, come pietra di paragone delle differenze, delle qualità, del sacrificio, della forza d’animo, della serenità interiore, dell’eroismo”.

Per questo anche, ai nostri giorni, si tace la verità a chi viene colpito da una malattia incurabile, senza capire che è proprio il silenzio a rendere la morte più terribile, a farne un evento innaturale, scisso dalla vita, cui invece è legata, come l’ombra alla figura.

Una volta invecchiare, ammalarsi, avvicinarsi alla morte era una naturale “ars moriendi”, una preparazione fisiologica al distacco. Oggi è un evento da rimuovere o da gestire direttamente.

Questo è avvenuto ed avviene perché la società del benessere e, soprattutto, una cultura consumistica ed edonistica è incapace di cogliere il senso della vita nelle situazioni di vecchiaia, di inabilità, di sofferenza, di difficoltà e di limitazione, che accompagnano l’uomo alla morte.

La vita non può non essere, secondo questi moderni stereotipi, che quella che ci viene presentata dai mezzi di comunicazione: bella, senza problemi, tutta rose e fiori, con belle donne e uomini superman. E non riuscendo a cogliere il senso profondo della vita, si sente e si avverte la morte come un non senso.

Per questo si propone a volte la sua anticipazione indolore, facendo appello all’autonomia assoluta dell’uomo, quasi egli fosse il padrone della sua vita.

In questa ottica si fa leva sul principio di autodeterminazione e si giunge ad esaltare il suicidio e l’eutanasia come forme paradossali di affermazione ed insieme di distruzione del proprio io.

Il suicidio in pratica – scriveva ancora il mio amico Gianfranceschi – “è un’elusione della morte. Nel suo maestroso incombere, la morte ambisce la sorpresa e la ritrova per saggiare l’animo di chi l’accoglie. Il suicida si sottrae alle regole della sfida, sceglie lui l’ora, il luogo e il mezzo. Nello stesso momento, non sa vivere e non sa morire”.

Dall’altro canto, nella nostra società va sempre più affermandosi una sorta di “etica utilitaristica”, in base alla quale il malato grave e il morente, che non è più utile per una società efficentista e produttivistica, bisognoso di cure costose e sofisticate, viene considerato un peso per la collettività e quindi, nell’ottica di una fredda ed impersonale logica di costi-ricavi, non degno di essere curato ed assistito.

In un contesto culturale ed ideologico di questo tipo, che abbiamo potuto evidentemente delineare a grandi linee, si spiegano le sempre più frequenti campagne di opinione per introdurre nel nostro ordinamento giuridico l’eutanasia ed il suicidio assistito, come si vorrebbe fare con il referendum proposto dai radicali.

L’accettazione culturale e giuridica dell’eutanasia o del suicidio assistito è un messaggio pericoloso non solo per la nostra società, ma anche per le future generazioni e per l’umanità intera è di una gravità enorme, perché contribuisce alla diffusione di quella che Giovanni Paolo II definì “la cultura della morte”, che si manifesta anche in tanti altri ambiti come la morte per fame, per guerre, per violenze, ma che tutti sono riconducibili ad una scarsa valutazione della dignità della persona.

Al di là delle convinzioni religiose personali, infatti, non v’è dubbio che la vita debba terminare così come iniziata: naturalmente. Non può l’uomo impadronirsene. Non sta a lui decretarne la fine, per nessun motivo, fosse anche il più nobile. La vita è un bene indisponibile e intangibile, che non appartiene a nessuno di noi. Essa è un valore in sé, ha un significato ontologico che la rende indipendente dalla sua qualità e mai “inutile”. La vita è sempre degna di essere vissuta e non soltanto se è “sana”. Per questo uno Stato serio che vuole dirsi civile deve tutelarla sempre e comunque, e non a seconda dei casi.

*Riccardo Pedrizzi, UCID – Presidente Nazionale del Comitato Tecnico Scientifico

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