giovedì, 21 Novembre, 2024
Cultura

La bellezza salverà il mondo?

Nel 2001 i talebani distrussero due enormi statue di Buddha scolpite nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, a circa 230 chilometri da Kabul, ad un’altezza di 2500 metri. Sono trascorsi vent’anni ma quell’atto rimane una ferita non solo per la perdita di un patrimonio artistico e religioso, ma per un gesto di rifiuto del senso di bellezza che l’arte diffonde ovunque e che rimane un segno di fratellanza condivisa tra i popoli.

Erano due enormi statue alte 55 e 33 metri, scolpite nella pietra. I talebani le consideravano “simboli pagani” e le distrussero, accanendosi con la dinamite. Più voci si sono levate in questi anni per chiedere alla comunità internazionale, all’Unesco e al governo di Kabul di avere come priorità la ricostruzione delle statue. Ora si attendono, dal nuovo governo, segnali concreti di rispetto della storia del proprio Paese. Perché l’arte, in ogni sua manifestazione, rimane una delle voci più intime e profonde della sensibilità umana, capace di arrivare direttamente al cuore delle genti, di suscitare sentimenti di ammirazione e di abbattere, in molti casi, muri di incomprensioni e diffidenze. Spesso partendo con piccoli gesti, comuni in molti luoghi del Medio Oriente.

Il viaggiatore che arriva o si trova in transito nello stato di Israele non potrà – per esempio – non notare come una delle parole che ascolterà con maggior frequenza sarà “toh – dah”. Gli altoparlanti dell’aeroporto internazionale di Tel – Aviv lo ripetono in continuazione, dopo ogni informazione o avviso: “toh – dah”, grazie!

Ma questo grazie non si riduce a sottolineare un concetto di cortesia e porta con sé un’accezione di grazia, quasi un gesto di accoglienza.

Nell’antichità il saluto, come l’aspetto della persona, implicano un valore assoluto nel rapporto. Il “grazie” comprende un’apertura all’altro, come il suo aspetto non si riduce alle sembianze fisiche ma porta con sé le virtù e le qualità possedute da ognuno. Non a caso i greci parlano dei propri miti definendo l’eroe “kalòs kai agathòs”, bello e buono. Se è bello, l’uomo deve essere anche buono e ricco di virtù. La bellezza è dunque connessa al comportamento morale, è specchio essa stessa del comportamento morale.

Dunque, nel mondo antico, nel mondo classico, la bellezza non si stacca mai dalla virtù, è un valore assoluto: bello e buono sono complementari, ciò che è bello non può che essere buono, ciò che è buono è necessariamente bello. È l’ideale di Platone: il bello e il buono spingono gli uomini all’imitazione e, di conseguenza, l’arte diventa strumento per l’imitazione.

È un percorso comune a tutto il periodo classico quando l’arte, anche se spesso piegata a esigenze politiche o a “ragion di stato”, trasferisce agli occhi di tutti ideali e comportamenti “alti”, se non eroici.

DIFFONDERE SEGNI DI BELLEZZA

Questo concetto si è un po’ perso nel passaggio all’epoca moderna, ma l’arte rimane strumento pedagogico e d’imitazione.

Pensiamo a Giotto. Andiamo allora al ciclo con le Storie di san Francesco nella Basilica superiore di Assisi ed alla Cappella degli Scrovegni di Padova. Nella città dove l’opera del santo è iniziata, i frutti hanno cominciato a germogliare e dove una grande basilica sta sorgendo, Giotto vuole raccontare le storie di Francesco e del Nuovo Testamento a un popolo di analfabeti. Oggi potremmo paragonare questa attività ad una moderna fiction. Il fatto storico e la meditazione religiosa conseguente vengono raccontati con lo strumento più ampio di divulgazione dell’epoca. La gente è analfabeta, non ha luoghi di circolazione delle idee se non la grande basilica o la piccola cappella dove si raccoglie un gran numero di persone. Lì, questa massa che non sa leggere, né scrivere, osserva una sorta di graphic novel e conosce le Scritture, la vita del santo, subisce il fascino del racconto evangelico e dell’agiografia portando a casa un senso di bellezza e di fede. Potremmo semplificare dicendo che gruppi di persone vengono “educate” attraverso una sequenza di immagini, conseguenti nella rappresentazione dei temi e capaci di rafforzare conoscenze presenti nel popolo (attraverso l’ascolto) ma prive di quella rappresentazione “scenica” capace di ancorare il racconto a immagini, rendendolo vivido. E non è un caso che molti artisti amino rappresentare personaggi del racconto evangelico con costumi contemporanei. Un ulteriore elemento di immedesimazione dei presenti nella scena artistica e storica.

Inizia così una stagione dove i temi religiosi orientano l’arte.

La Chiesa diventa la grande committente e i papi i nuovi mecenati.

Pensiamo allora a Michelangelo che il papa vuole per sé a Roma e non gli concede tregua. Giulio ll della Rovere gli impone di pensare alla sua tomba, cruccio per tutta la vita del fiorentino, gli affida la Sestina. Quella volta dove diventa quasi cieco per il colore che gli cola negli occhi mentre lui è steso, supino e solitario sull’alta impalcatura, e poi fino a quel Giudizio Universale potenza della Chiesa trionfante.

Pensiamo a Raffaello d’Urbino che Leone X Medici vuole per le stanze private, della Segnatura. Gli affida la scuola d’Atene e lui vi raffigura tutto il mondo antico, nelle figure dei sapienti e degli artisti. E il papa, colpito da tanta bellezza, manda via tutti gli altri artisti e gli impone di continuare le altre stanze, fino ad arrivare all’incendio di Borgo con le immagini della liberazione di Pietro, forse il più bel notturno della storia dell’arte.

La catena prosegue con altri. Alessandro VII è il papa del Bernini, l’artista che rimodella Roma. Innocenzo X è il pontefice di Borromini fino ad arrivare a papa Montini che affida a Manzù le pesanti porte di bronzo di San Pietro o la fiammeggiante Resurrezione di Cristo di Pericle Fazzini che domina il fondale dell’aula Paolo VI.

Ecco perché, ancora oggi, se uno entra in un museo, se entra in una Chiesa antica e non conosce la Bibbia, non conosce i testi sacri, perde il 50% del significato delle opere che sono poste dinnanzi ai suoi occhi. (1- continua)

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