Si infittisce il dibattito sulla sentenza della Corte Costituzionale che, innovando rispetto alle norme vigenti, autorizza, in certe specifiche condizioni il ricorso al suicidio assistito.
La conferenza dei Vescovi italiani è stata, già nelle ore successive alla sentenza, la più sollecita nel prendere posizione su una svolta che confligge con il principio della sacralità della persona umana, con l’eccezione – c’è a riguardo una bella intervista di Monsignore Forte – nel convenire sulla possibilità di interrompere cure che equivalgano ad un inutile accanimento terapeutico.
La preoccupazione del mondo cattolico trova il suo fermo ancoraggio nella constatazione di una concezione utilitaristica della stesa vita umana, che è prevalente e che comincia da lontano: dalle pratiche eugenetiche di inizio secolo XX in America per approdare poi all’orrore del nazismo con la soppressione non solo degli ebrei, dei nemici del regime ma anche di portatori di handicap e di malattie gravi, cui si è aggiunta la brutalità dei gulag staliniani.
Oggi il disvalore della persone non è più inspirato a dottrine totalitarie ma alla dittatura della società dei consumi, che esorcizza la malattia, la vecchiaia, l’inefficienza e apre così la strada ad una cultura della morte.
Tocca ora al Parlamento legiferare sulla base della sentenza della Corte, ponendo una serie di paletti per l’applicazione del suicidio assistito.
Paletti che prevedano l’obiezione di coscienza per i medici che non intendessero eseguirlo ma anche regole rigorose, come suggerito dalla stessa Corte, per la sua praticabilità.
Non siamo tutti più liberi, come ha esultato Marco Cappato, ma tutti più responsabili, per evitare che la pratica ammessa, a precise condizioni, dalla Corte non ci porti alla deriva delle società opulente del Nord Europa dove l’eutanasia, pensiamo al Belgio, è perfino praticata sui bambini.