lunedì, 23 Dicembre, 2024
Economia

Colombo Clerici (Assoedilizia): riforma del catasto un danno per il Paese

I proprietari di immobili iscritti ad Assoedilizia lo sanno bene. A differenza di quanto succede nel resto dell’Europa, dove la media si aggira attorno al 50 per cento, in Italia ben l’80 per cento delle famiglie abita in case di proprietà. Eppure il settore immobiliare è sempre più isolato. Gravato da tasse e pregiudizi. Di problemi e prospettive parla il Presidente Achille Colombo Clerici, nella nostra intervista.

Presidente Achille Colombo Clerici, al Forum Ambrosetti dove è stato un gradito e seguitissimo ospite, ha toccato un tema di attualità: la rilevanza dell’economia immobiliare nel quadro generale dell’economia dello stato…
Il settore edilizio non viene considerato dalla intellettualità economica italiana come un settore maturo dal punto di vista della organicità sul piano economico generale. Lo si fa rientrare in una sfera economica di serie B (quasi una variabile indipendente del sistema economico) caratterizzata da una diffusa cultura del “fai da te”, affidata allo spontaneismo, ed alla fantasia imprenditoriale dei singoli e non inquadrabile in un processo di sviluppo industriale soggetto al sindacato scientifico, come avviene per la quasi totalità degli altri settori economici, anche a causa del fatto che il processo produttivo in edilizia non può essere seriale. Ad esempio, da Ambrosetti a Cernobbio, dove vengo da 25 anni e dove si affrontano, da parte di imprenditori e di intellettuali dell’economia, i temi nodali, non solo dell’economia, ma della vita umana sotto la molteplicità degli aspetti che la riguardano nella sua interezza, non ricordo ci sia mai stata una sessione dedicata né all’urbanistica, né tanto meno all’edilizia.

Lei ha sollevato il problema del trattamento fiscale degli immobili in Italia. In particolare della riforma del catasto. Cosa preoccupa Lei e i suoi associati?
Che il comparto immobiliare sia considerato dallo stato una specie di bancomat.

La vicenda ebbe inizio nel 1992 quando il Governo di Giuliano Amato introdusse, con la “Finanziaria lacrime e sangue”, l’Isi, imposta straordinaria sugli immobili di natura patrimoniale. Ebbe a ripetersi anche nel 2011 quando, con lo spread ad oltre 500 punti e alla soglia dell’uscita dell’Italia dall’euro, venne reintrodotta l’Imu, la patrimoniale sulle abitazioni occupate a titolo di proprietà. L’Isi in quel lasso di tempo aveva cambiato nome: in Ici, poi in Imu e infine in Tasi. In dieci anni le tasse sulla casa sono costate ai proprietari dai 400 ai 500 miliardi di euro.

Oggi, con il debito pubblico monstre pari a circa il 160% del Pil (record storico dall’Unità d’Italia) lo Stato è all’affannosa ricerca di risorse per colmare, almeno in parte, la voragine. Ma anziché rivolgere la propria attenzione all’evasione fiscale – circa 110 miliardi di euro ogni anno con l’Italia in cima alla lista mondiale dei Paesi dall’economia più sviluppata – ed alla crescita economica, che ovviamente si trascina dietro un costante incremento di risorse fiscali, lo Stato ( sospinto dalla Commissione Europea e da altri organismi internazionali e nazionali – è proprio di questi giorni un ennesimo richiamo dell’OCSE a ricavare un maggior gettito fiscale dagli immobili)  tira nuovamente fuori dal cilindro la riforma del Catasto. Che, realizzata nei termini che conosciamo, si risolverebbe in un disastro per la proprietà immobiliare.

Il Catasto ha una lunga storia. Nacque con l’Unità d’Italia, ma con una differenza fondamentale rispetto ad oggi. Allora si trattava di un ‘catasto reddituale’, cioè basato sulla capacità dell’immobile di produrre reddito, e fondato sui criteri delle cosiddette rendite catastali che ne misuravano la funzionalità. Ma da più di vent’anni il Catasto misura, attraverso l’applicazione alle rendite di coefficienti moltiplicatori, il valore immobiliare. Si è trasformato in tal modo in un vero e proprio strumento di tassazione patrimoniale.

Anni fa si avviò la riforma del Catasto, sempre su base patrimoniale (le rendite venivano sostituite dai valori di mercato per metro quadro): l’intento dichiarato quello di eliminare errori e sperequazioni. La reazione dell’economia immobiliare fece capire quali negativi effetti il ‘nuovo’ Catasto avrebbe avuto da un punto di vista, sia economico, sia politico-elettorale.

Ora, una cosa è emendare errori ed evitare sperequazioni, ed altra è fare un salto nel buio con una riforma avventata dagli effetti irrevocabili potenzialmente nefasti per l’economia, quale sarebbe quella che ha in mente il Fisco italiano.

Si deve comunque riflettere sul fatto che il catasto basato sui valori di mercato privilegia la finalità fiscale nei suoi aspetti espropriativi, mentre quello reddituale premia la redditualità e quindi favorisce il rinnovamento strutturale e funzionale degli immobili.

Il catasto, dunque, come strumento di crescita e non di freno economico.

Il timore di Assoedilizia, che Lei ha sottolineato al Forum, che dietro al proposito di riforma si nasconda, un aumento della patrimoniale sugli immobili. Cosa significa e quali problemi, se la sua ipotesi è fondata, comporterà per i proprietari di immobili?
Tutto nasce, come dicevo, da una delle “Raccomandazioni Paese” (Country Recommendations) che  la Commissione Europea  invia periodicamente ai Paesi membri U.E.;  all’Italia raccomanda appunto la “riforma dei valori catastali non aggiornati” e “la revisione delle agevolazioni fiscali”.  A sua volta, l’atto di indirizzo 2021-2023, inviato dal MEF alle Agenzie Fiscali,  raccomanda di “presidiare la qualità e la completezza delle banche dati catastali”, con un “costante aggiornamento dell’Anagrafe immobiliare integrata”. Il timore è che dietro al proposito di riforma si nasconda, senza mai pronunciarlo, un aumento della “patrimoniale” sugli immobili.

L’U.E. continua a ritenere che gli immobili nel nostro Paese forniscano un gettito che, in rapporto al Pil, è inferiore a quello medio europeo e quindi insiste acriticamente per l’aumento delle relative imposte, in primis riformando il catasto.

E’ bene dunque che l’U.E. sappia alcune cose che mostra di ignorare sulla fiscalità immobiliare italiana, e si renda conto di quanto sia miope e dannosa per la nostra economia la riforma catastale che il Fisco italiano ha in mente.

A parte il fatto che l’assunto dell’U.E. non risponde neppure al vero, in quanto nel computo delle imposte che concorrono a formare il gettito in esame rientrano, per molti Paesi, tasse che sono escluse dal computo del gettito italiano, occorre dire che nel ragionamento c’è un irrimediabile errore di fondo.

Non si tratta infatti di raffrontare, come fa l’Unione, il gettito fiscale al Pil, bensì di verificare l’entità del carico fiscale che grava su quegli immobili che pagano le imposte.

Va da sé che, se questi immobili sono una esigua minoranza rispetto al totale, il gettito sarà basso, ma l’incidenza fiscale elevatissima.

Ed allora, semmai, non è questione di aumentare ancora le imposte che gravano sul comparto immobiliare (perchè in tal modo si finirebbe a strozzarlo), bensì di rivedere l’intera politica della casa e del settore immobiliare del nostro Paese. Se c’è una distorsione nel sistema (l’Italia è molto al di sotto della media dei Paesi Europei più avanzati, quanto ad abitazioni in locazione) la via da percorrere non è quella di accentuarne gli effetti, ma quella di eliminare la distorsione stessa.

Il fatto è che da noi ben il 60,5% dei fabbricati residenziali per legge, non solo non paga l’Imu, ma non concorre nemmeno, non essendovi reddito imponibile, a pagare l’Irpef, l’Irpeg, l’Imposta annuale di registro sui canoni di locazione, né dà luogo al virtuoso meccanismo economico/fiscale derivante dal turn over abitativo.

Una precisa scelta politica è stata fatta, collegata a precipue ragioni ideologiche: penalizzare la locazione privata e favorire l’abitazione in proprietà. Dal secondo Dopoguerra in poi, si sono costruite sempre meno case virtuose: quelle cioè che producono redditi tassabili e che sono di buona qualità edilizia. Oggi l’80% delle famiglie occupa le case a titolo di proprietà. Su queste, niente prelievo fiscale e niente indotto economico, producente a sua volta gettito tributario.

Quanto alla invocata riforma del catasto va detto che cambiare il metodo di valutazione catastale degli immobili, introducendo criteri che porteranno ad un innalzamento dei valori imponibili e lasciando di fatto inalterato il sistema delle aliquote, che è calibrato sugli attuali più bassi valori, è operazione iniqua, insensata e dannosa.

Questo perché non si può pensare di introdurre tout court la riforma e vedere poi che effetto fa per decidere in merito ad una ipotetica revisione, in altri termini, all’abbassamento delle aliquote.

E’ la questione della sperequazione: si dice che oggi il problema è far pagare di più chi paga di meno rispetto ad altri. Domani, attuata la riforma, il problema sarà far pagare di meno tutti coloro che pagheranno in modo spropositato. Non è né equo, né sensato.

Quanto alla “garanzia” della cosiddetta invarianza infatti che, si badi bene, è invarianza del gettito e non del prelievo a carico dei contribuenti, è molto relativa. Anzi inattuabile, stante l’impossibilità di una verifica da parte del contribuente, a causa della presenza di tre variabili incrementative affidate alla mera e insindacabile valutazione comunale: la nuova produzione edilizia, la riqualificazione edilizia, il recupero della evasione fiscale. La scelta comunale dunque rimarrà meramente discrezionale e insindacabile. Quanto all’eventuale intervento legislativo di revisione delle aliquote: ve lo immaginate? Campa cavallo…

C’è dunque il rischio che per una infinità di casi si dia luogo ad un ulteriore innalzamento di valori, già elevati, cui non faccia seguito una pur necessaria corrispettiva diminuzione delle aliquote.

Occorre spiegarlo bene all’ U.E. (che richiede a gran voce la riforma del nostro catasto, senza averne né compresa, né bene valutata la portata) ed a tutte le istituzioni (internazionali e nazionali) che ne recepiscono il pensiero facendosene pedissequamente portatrici.

Presidente Achille Colombo Clerici, infine, Lei ha parlato a Cernobbio. Nel Paese si assiste ad “una distorsione nel sistema”. Può spiegarci le cause e le soluzioni percorribili?
Come ho detto prima, a differenza di quanto succede nel resto dell’Europa, dove la media si aggira attorno al 50 per cento, in Italia ben l’80 per cento delle famiglie abita in case di proprietà. Questa è l’anomalia, questo è lo squilibrio.  Ormai il settore immobiliare è sempre più in alto mare. A parte i grandi investimenti dei fondi internazionali, per quanto riguarda la proprietà immobiliare medio-piccola, da noi il sistema funziona sempre meno.

E quello squilibrio di cui dicevo è causa di una grave diseconomicità oltre che di una improduttività sul piano fiscale: Il fatto è che queste case appartengono ad una economia statica e non dinamica: non producono gettito fiscale (né IMU, né imposte dirette indirette), non fanno certificazioni elettriche ed energetiche (come le abitazioni in locazione), non danno luogo all’indotto derivante dal turnover abitativo legato alla locazione (lavoro per agenti immobiliari, artigiani vari addetti alle pulizie e alla manutenzionedell’immobile, ditte di traslochi, professionisti e tecnici, mobilieri, tappezzieri, imbianchini etc.). E dunque sono sterili dal punto di vista economico.

La via di uscita? Permettere che la locazione abitativa privata dispieghi sul piano economico – senza lacci e lacciuoli od onerazioni di sorta – i suoi benefici influssi come fattore di propulsione dell’economia ed al tempo stesso di calmieramento del mercato.

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