“La violenza non nasce dal nulla: la si apprende in casa, dove si assorbono le gerarchie, i ruoli, la si conosce nel gruppo dei pari, in televisione, attorno a noi”. Ne è convinta Marilù Oliva, docente di lettere e scrittrice. Nel romanzo “Le spose sepolte” (2018) affronta proprio il tema delle donne vittime di femminicidio.
In un piccolo paesino nell’Appennino Tosco Emiliano si verificano misteriose sparizioni di mogli e madri i cui i mariti sostengono di non sapere nulla. L’enigma sarà risolto grazie a un killer – giustiziere che prima aiuta la polizia a individuare i cadaveri e poi ammazza gli assassini che con la giustizia l’avevano fatta franca per mancanza di prove…
La legge cd. Codice rosso rende le sanzioni più dure, eppure i casi di violenza sulle donne si ripetono a ritmo impressionante. Come mai?
“Possiamo mandare in prigione quanti violenti e femminicidi vogliamo (sebbene i casi di cronaca abbiano dimostrato che spesso le forze dell’ordine non siano intervenute tempestivamente) e possiamo anche chiuderli in una cella e buttare via le chiavi: ma non avremo risolto il problema, perché ne verranno altri. L’unica è affrontare la questione nel profondo, cercando di capire cosa c’è dietro a tanta violenza e come arginarla. Per questo, lavorando sulle nuove generazioni, io spero che nell’arco di qualche decennio la situazione cambi”.
Quale è l’identikit del violento?
“La violenza non nasce dal nulla: la si apprende in casa, dove si assorbono le gerarchie, i ruoli, la si conosce nel gruppo dei pari, in televisione, attorno a noi. Si impara a usarla o a riceverla, in una sorta di fatale dipendenza. Al di là del vissuto dei soggetti abusanti, diverso per ciascuno, ciò che li accomuna è l’adesione a una sottocultura atavica di discriminazione di genere: si tratta di uomini – di ogni classe sociale e di ogni età – che ritengono la donna un proprio possesso e pretendono il controllo assoluto su di lei. Ma questi uomini, non dimentichiamolo, sono stati allevati da genitori (quindi anche da madri) che non hanno saputo insegnare loro a relazionarsi in maniera equilibrata”.
Il femminicidio è solo un frutto avvelenato della cultura maschilista o dietro nasconde altre ragioni?
“Il femminicidio non è una semplice azione omicidiaria: è in primis una cultura, una forma di pensiero e interpretazione della realtà e svalutazione della donna che si estende a diversi livelli. È tutto legato: i codici pubblicitari che spesso minimizzano le violenze con un lessico stereotipato e machista, la mentalità diffusa che tende ad accogliere le prevaricazioni sulle donne, a dar loro poca importanza, a relegarle a ornamento, la reificazione del corpo femminile, incidono perfino i ruoli preconfezionati imposti ai bambini. Essendo un fenomeno così complesso e composito, i fattori che condizionano la cultura sono tanti. L’educazione che riceviamo, i libri che leggiamo (e soprattutto quelli che non leggiamo), i messaggi surrettizi, la televisione e i mezzi di comunicazione di massa”.
Quali azioni possiamo compiere nella vita di tutti i giorni per migliorare la sicurezza delle donne?
“Credo che la situazione potrebbe migliorare con un lavoro profondo di rieducazione all’altro e, in questo senso, tutti possiamo fare qualcosa. Noi insegnanti a scuola, noi genitori con i nostri figli, noi adulti quando ci confrontiamo con gli altri. Dovrebbero inoltre smantellarsi alcuni modelli vecchi di arrendevolezza femminile insieme a nuovi modelli, ugualmente dannosi, di rappresentazione della donna come corpo-oggetto. Poi occorrerebbe cambiare la forma mentis corrente e partire a monte: dall’educazione al rispetto verso l’altro, dall’abbattimento degli stereotipi, i giornalisti potrebbero adottare il “Manifesto di Venezia”. Ma forse sarebbe il caso di riflettere anche su quanto sia labile il confine tra volgarità e aggressione e su quanto la svalutazione diffusa della donna, del suo lavoro, del suo ruolo, della sua fisicità, persuada – anche a livello inconscio – a considerare meno grave qualsiasi infrazione contro la sua persona”.