A Mar-a-Lago, Donald Trump ha ribadito il sostegno a Benjamin Netanyahu e ha alzato i toni su due fronti: Gaza e Iran. Al termine del loro incontro – definito dal premier israeliano «molto, molto produttivo» – il presidente americano ha lanciato un ultimatum ad Hamas: «Disarmo o pagherà un prezzo elevato», richiamando uno dei passaggi chiave della seconda fase del piano per la Striscia, ancora impantanata tra tempi, garanzie e modalità di attuazione. Hamas, dal canto suo, ha replicato attraverso la propria ala armata che non rinuncerà alle armi finché “l’occupazione continuerà”.
Trump ha anche avvertito Teheran: se l’Iran dovesse riprendere il programma nucleare o tentare di riarmarsi, gli Stati Uniti – ha detto – «non avrebbero altra scelta che eliminare quel riarmo molto rapidamente», evocando la possibilità di nuovi attacchi contro infrastrutture strategiche, impianti nucleari o missili. Alla minaccia ha risposto su X Ali Shamkhani, consigliere politico di vertice della Guida Suprema, promettendo «una dura risposta immediata» a qualunque aggressione. Nel frattempo, in Iran continuano le tensioni interne: ieri il presidente Masoud Pezeshkian ha chiesto al ministro dell’Interno di «ascoltare le legittime rivendicazioni» dei manifestanti dopo il secondo giorno consecutivo di proteste nel bazar e nelle zone centrali di Teheran, innescate da inflazione, oscillazioni del cambio e caro-vita.
L’asse Washington–Gerusalemme si è però misurato anche con la Cisgiordania. Secondo Axios, Trump e i suoi consiglieri avrebbero chiesto a Netanyahu di cambiare rotta e «calmare le acque», per evitare provocazioni e ridurre il rischio di un’escalation che potrebbe mettere in crisi sia l’accordo su Gaza sia l’ambizione americana di rilanciare l’espansione degli Accordi di Abramo. Trump ha ammesso che con Netanyahu «non c’è accordo al 100%» sul dossier, ma ha aggiunto di essere convinto che il premier «farà la cosa giusta».
Il tema si intreccia con le accuse di violenze dei coloni, la fragilità finanziaria dell’Autorità nazionale palestinese e l’espansione degli insediamenti. In un quadro già instabile, l’impressione è che Washington voglia accelerare sul “dopo Gaza”, mentre Israele prova a tenere insieme sicurezza, politica interna e relazioni internazionali. Ma tra ultimatum, accuse incrociate e crisi umanitarie, la strada verso una vera de-escalation resta tutt’altro che tracciata.
Scontro istituzionale in Israele
Sul terreno politico interno israeliano, intanto, si alza lo scontro istituzionale: il ministro delle Finanze e leader dell’estrema destra Bezalel Smotrich ha attaccato di nuovo il presidente della Corte Suprema Isaac Amit, accusando i giudici di «calpestare la volontà della maggioranza» dopo la sospensione dell’iter per la chiusura della Radio dell’Esercito, approvata all’unanimità dal governo ma bloccata da un’ingiunzione provvisoria. Sul fronte umanitario, invece, nuova frizione: il governo israeliano ha annunciato la revoca dei permessi di operare a 37 ONG nella Striscia di Gaza – tra cui Medici Senza Frontiere, Oxfam e ActionAid – sostenendo che alcune avrebbero rifiutato di fornire informazioni «complete e verificabili» sul personale e che verifiche di sicurezza avrebbero rilevato presunti coinvolgimenti in attività terroristiche. Le organizzazioni interessate respingono da tempo accuse generalizzate e rivendicano la natura umanitaria del loro lavoro.
Contratto F-15
In parallelo, dagli Stati Uniti è arrivata una decisione destinata a pesare sugli equilibri regionali: il Pentagono ha annunciato che Boeing si è aggiudicata un contratto da 8,6 miliardi di dollari per la fornitura di 25 caccia F-15IA a Israele, con opzione per altri 25. Gli aerei saranno costruiti in Missouri e la produzione dovrebbe concludersi entro il 2035. La notizia è stata diffusa a ridosso del faccia a faccia in Florida, rafforzando la cornice di un rapporto strategico che Trump ha rivendicato anche sul piano simbolico: Netanyahu ha conferito al presidente americano la più alta onorificenza civile israeliana (prima volta per un non israeliano) e ha annunciato che in Israele gli consegnerà il “Premio Israele” in occasione della prossima visita prevista tra aprile e maggio.
Siria e quadro regionale
Il mosaico mediorientale si completa con altri due dossier. In Siria, le autorità hanno imposto un coprifuoco notturno a Latakia dopo attacchi e vandalismi in quartieri a maggioranza alawita, sullo sfondo di una fragile transizione seguita alla caduta di Bashar al-Assad nel dicembre 2024 e di nuove paure delle minoranze. E sul versante antiterrorismo, il CENTCOM ha riferito che forze statunitensi e alleate hanno ucciso o catturato quasi 25 operativi dell’ISIS dopo l’operazione su vasta scala del 19 dicembre, con 11 missioni successive e la distruzione di depositi d’armi. Infine, segnali di tensione anche nel Golfo: l’Arabia Saudita ha chiesto agli Emirati Arabi Uniti di ritirare le proprie forze dallo Yemen entro 24 ore e di cessare ogni sostegno a gruppi armati nel Paese, allineandosi alla richiesta del governo yemenita di Aden.



