Donald Trump e Benjamin Netanyahu si sono seduti allo stesso tavolo a Mar a Lago, in Florida, alle 19 ora italiana, in un vertice che la Casa Bianca ha caricato di un forte valore politico e simbolico. Il colloquio, il sesto faccia a faccia dell’anno da quando Trump è tornato alla Casa Bianca, si inserisce in una fase in cui la tregua avviata in ottobre ha finora retto, ma appare sempre più fragile nel momento in cui il negoziato tenta di entrare nella seconda fase, la più delicata e politicamente esplosiva dell’intero processo.
Davanti ai giornalisti, Trump ha spinto per accelerare. Ha detto che bisogna passare alla seconda fase “il più rapidamente possibile”, ma aggiungendo che “dobbiamo disarmare Hamas”. Il Presidente ha anche elogiato Netanyahu definendolo un “eroe di guerra”, sostenendo che senza di lui “Israele oggi non esisterebbe” e arrivando a invocare una grazia nel processo penale che coinvolge il premier israeliano. Netanyahu ha ricambiato con toni altrettanto espliciti. “Israele non ha mai avuto un amico come Trump alla Casa Bianca”, ha detto, insistendo sul valore del rapporto personale come leva politica in una fase in cui il negoziato resta fragile. Al centro dei colloqui c’è infatti la fase due del piano sostenuto da Washington e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
L’obiettivo dichiarato è archiviare il controllo di Hamas sulla Striscia, avviare la ricostruzione sotto supervisione internazionale, creare una forza multinazionale di sicurezza e impostare un percorso di normalizzazione regionale che, nelle intenzioni americane, potrebbe riaprire uno spiraglio per un futuro Stato palestinese. Ma proprio su disarmo di Hamas, mandato della forza internazionale, tempi del ritiro israeliano e architettura della futura governance di Gaza restano divisioni profonde, mentre resta aperta anche la questione del calendario e delle modalità di restituzione degli ostaggi ancora nelle mani del gruppo islamista.
Gli incontri preparatori e il ruolo dei mediatori
Il premier israeliano è arrivato negli Stati Uniti dopo una serie di incontri preparatori. Prima del bilaterale con Trump ha visto il segretario di Stato Marco Rubio e, secondo quanto riferito da media israeliani, anche gli inviati speciali Steve Witkoff e Jared Kushner. A Miami Netanyahu ha incontrato anche il capo del Pentagono Pete Hegseth, con la presenza del generale Dan Caine, e ha avuto una videocall con Elon Musk, che avrebbe accettato l’invito a partecipare a marzo a una conferenza sui trasporti smart.
Sul piano simbolico e interno, Netanyahu ha inoltre incontrato in Florida i genitori di Ran Gvili, l’ultimo ostaggio la cui salma risulterebbe ancora a Gaza. Parallelamente, la Casa Bianca continua a lavorare con i principali mediatori regionali, in particolare Qatar ed Egitto, considerati canali indispensabili per qualsiasi avanzamento sulla fase due, sia sul fronte degli ostaggi sia su quello delle garanzie di sicurezza e della gestione del valico di Rafah.
Rafah e le tensioni nella coalizione
La fragilità del dossier Gaza è emersa anche nelle ore precedenti al viaggio. Netanyahu aveva proposto l’apertura del valico di Rafah in entrambe le direzioni, presentandolo come un segnale di impegno verso l’accordo di cessate il fuoco. La proposta è stata però respinta dai ministri di estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich e quindi ritirata, un passaggio che conferma le tensioni dentro la coalizione e i limiti di manovra del premier proprio mentre Washington chiede risultati concreti.
Da parte palestinese, Hamas ha ribadito la linea del rifiuto sul nodo chiave del disarmo. Poche ore prima dell’incontro in Florida, le Brigate Ezzedin al Qassam hanno dichiarato che non consegneranno le armi finché continuerà quella che definiscono l’occupazione, irrigidendo ulteriormente il confronto su una fase due che prevede anche un’ulteriore riduzione della presenza militare israeliana e il dispiegamento di una forza internazionale di stabilizzazione.
Iran, Siria e quadro regionale
Il vertice di Mar a Lago non si è limitato alla Striscia. Trump ha rilanciato un avvertimento diretto all’Iran, dicendo che gli Stati Uniti sono pronti a colpirlo di nuovo se Teheran dovesse “rimettersi in piedi”, promettendo un intervento “duro” e “senza pietà” in caso di una ripresa delle capacità offensive. Sul piano regionale, il presidente ha anche commentato la Siria, affermando di sperare che “Israele vada d’accordo con la Siria” e definendo il leader siriano “tosto” ma capace di “fare un grande lavoro”.
Resta inoltre sullo sfondo il caso Somaliland, che continua a generare reazioni negative nel mondo arabo e africano, e il fronte libanese, dove le tensioni con Hezbollah mantengono alta l’instabilità. Sul terreno, intanto, la situazione umanitaria a Gaza resta critica, con migliaia di sfollati ancora in condizioni precarie, un elemento che pesa sul negoziato e aumenta la pressione internazionale per un consolidamento duraturo della tregua. In questo quadro, Washington prova a trasformare la tregua di ottobre nel proprio risultato diplomatico più spendibile.
Ma la fase due, tra le resistenze incrociate di Israele e Hamas, il ruolo delicato dei mediatori regionali e le pressioni politiche interne su Netanyahu, resta una salita ripida, in cui ogni passo dipende dalla capacità degli Stati Uniti di tenere insieme sicurezza, politica e gestione dell’emergenza.



