L’annuncio del ritiro dell’M23 da Uvira arriva come un gesto calibrato al millimetro, più politico che operativo, in un momento in cui il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti mostra già segni di cedimento. La città del Sud Kivu, affacciata sul lago Tanganica e cruciale per i collegamenti con Burundi e Tanzania, era caduta nelle mani dei ribelli in un’operazione fulminea che aveva immediatamente incrinato la fiducia nel processo negoziale. Ora il gruppo armato promette di lasciare la zona, ma sul terreno la situazione resta ambigua: testimoni riferiscono che le unità dell’M23 sono ancora presenti, mentre la popolazione attende segnali concreti che tardano ad arrivare. Il comunicato diffuso dal coordinatore Corneil Nangaa parla di un ritiro “responsabile” e “costruttivo”, ma pone condizioni che rivelano la profondità della sfiducia reciproca. L’M23 chiede la demilitarizzazione di Uvira, la protezione dei civili e un monitoraggio neutrale del cessate il fuoco, temendo che le forze armate congolesi possano approfittare del disimpegno per riconquistare la città. Kinshasa, dal canto suo, accusa i ribelli di usare la tregua come copertura per consolidare posizioni strategiche e negoziare da una posizione di forza. La pressione internazionale è forte: Washington ha bisogno di un segnale tangibile per evitare che l’accordo appena firmato si trasformi nell’ennesima tregua effimera nell’est del Congo. Anche i Paesi vicini osservano con inquietudine: la presa di Uvira aveva irritato il Burundi, impegnato militarmente al fianco di Kinshasa, e rischiava di aprire un nuovo fronte regionale. Il ritiro, se reale, potrebbe rappresentare un primo passo verso la de-escalation. Ma la rapidità con cui l’M23 ha conquistato la città e la lentezza con cui sembra lasciarla alimentano dubbi sulla sua reale volontà di fermare l’avanzata.



