L’Australia è ancora sotto shock per l’attentato che nei giorni scorsi ha colpito la comunità ebraica a Sydney, durante una celebrazione pubblica di Hanukkah sulla spiaggia di Bondi Beach. L’attacco, avvenuto in uno dei luoghi simbolo della città e in un contesto di festa aperto alla cittadinanza, ha assunto fin da subito i contorni di un atto terroristico mirato, confermati nelle ore successive dalle autorità e dalle prime risultanze investigative.
Secondo il bilancio ufficiale, almeno quindici persone hanno perso la vita e decine sono rimaste ferite, alcune in modo grave. Tra le vittime figurano membri della comunità ebraica di diverse generazioni, inclusi anziani e un sopravvissuto alla Shoah, un elemento che ha conferito all’attacco un peso simbolico particolarmente drammatico. La polizia ha neutralizzato uno degli aggressori sul posto, mentre un secondo è stato arrestato dopo essere rimasto ferito durante l’intervento delle forze dell’ordine.
Un attentato mirato contro la comunità ebraica
Le indagini hanno rapidamente escluso l’ipotesi di un gesto isolato o casuale. Le autorità australiane hanno parlato apertamente di terrorismo a matrice antisemita, sottolineando come l’obiettivo fosse esplicitamente la comunità ebraica riunita per una ricorrenza religiosa. Secondo quanto riferito da fonti investigative e confermato da testate internazionali, l’azione era stata pianificata con l’intento di colpire un evento simbolico, pubblico e altamente visibile.
L’attacco si inserisce in un contesto globale segnato da una crescente tensione e da un aumento degli episodi di antisemitismo, spesso collegati a dinamiche geopolitiche internazionali e a processi di radicalizzazione ideologica che travalicano i confini nazionali.
Chi erano gli attentatori: Sajid e Naveed Akram
La polizia del Nuovo Galles del Sud ha identificato i responsabili dell’attentato come Sajid Akram, di circa cinquant’anni, e suo figlio Naveed Akram, ventiquattrenne. I due hanno aperto il fuoco sulla folla utilizzando armi da guerra, colpendo indiscriminatamente i partecipanti alla celebrazione. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento della polizia, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito ed è attualmente ricoverato sotto custodia.
Nel veicolo utilizzato dagli attentatori sono stati rinvenuti materiali di propaganda jihadista, bandiere riconducibili allo Stato Islamico e dispositivi pronti all’uso, elementi che hanno rafforzato l’ipotesi di un attacco ispirato all’estremismo islamista.
Radicalizzazione e segnali ignorati
Ulteriori dettagli emersi nelle ultime ore hanno iniziato a delineare un quadro più articolato. Secondo quanto riferito dai media australiani e da fonti investigative, Sajid e Naveed Akram vivevano da tempo nell’area metropolitana di Sydney e conducevano una vita apparentemente marginale, senza una reale integrazione nel tessuto sociale. Il padre, Sajid, non risultava avere precedenti penali rilevanti, ma era descritto come una figura isolata, sempre più assorbita da contenuti ideologici estremisti.
Il figlio Naveed, più giovane e più attivo online, avrebbe mostrato negli ultimi anni una progressiva radicalizzazione, in particolare attraverso piattaforme digitali e circuiti di propaganda jihadista. Pur in presenza di segnali di allarme, nessuno dei due risultava sottoposto a misure restrittive al momento dell’attacco. Gli investigatori stanno ora cercando di chiarire se abbiano agito in totale autonomia o se siano stati incoraggiati o ispirati, anche solo ideologicamente, da reti estremiste esterne. L’attenzione è concentrata soprattutto sulle settimane precedenti l’attentato, durante le quali sarebbero emersi comportamenti più instabili e un’intensificazione della retorica violenta.
Il gesto che ha salvato vite: il fruttivendolo Ahmed al-Ahmed
In mezzo al caos e alla violenza, una storia di coraggio ha attraversato il racconto della strage. Ahmed al-Ahmed, 43 anni, fruttivendolo di origine musulmana, si trovava nei pressi dell’area dell’attacco quando ha visto uno degli attentatori ricaricare l’arma. Senza alcuna protezione né addestramento, si è lanciato contro di lui nel tentativo di fermarlo, riuscendo a bloccarlo e a rallentare la sparatoria.
Colpito da alcuni proiettili, Ahmed è rimasto ferito ma vivo. Le autorità australiane hanno riconosciuto che il suo intervento ha probabilmente salvato molte vite. Il suo gesto è stato salutato come simbolo di umanità e di rifiuto dell’odio, al di là di ogni appartenenza religiosa.
La risposta delle istituzioni australiane
Il primo ministro Anthony Albanese ha definito l’attentato «un attacco ai valori fondamentali dell’Australia», annunciando una revisione immediata delle misure di sicurezza per eventi pubblici e luoghi di culto. Il governo ha inoltre avviato un riesame delle normative sulle armi da fuoco e delle strategie di prevenzione della radicalizzazione.
Le forze di sicurezza hanno innalzato il livello di allerta in tutto il Paese, rafforzando la protezione delle comunità religiose considerate più esposte.
Condanna internazionale e allarme antisemitismo
La condanna dell’attentato è arrivata da tutto il mondo. Leader politici e religiosi hanno espresso solidarietà alla comunità ebraica australiana, mentre organizzazioni ebraiche internazionali hanno chiesto un rafforzamento delle misure di sicurezza durante le festività religiose. Anche il Papa ha denunciato l’attacco come un grave episodio di violenza antisemita, richiamando alla responsabilità morale di contrastare l’odio.
A quasi trent’anni dal massacro di Port Arthur, l’attentato di Bondi Beach rappresenta la più grave strage che l’Australia abbia conosciuto negli ultimi decenni. Le veglie, il silenzio e le manifestazioni di solidarietà che si stanno svolgendo in tutto il Paese testimoniano una ferita ancora aperta.



