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Donald Trump Presidente Usa, Benjamin Netanyahu Primo Ministro Israeliano

Gaza. Usa preoccupati che Israele possa rompere l’accordo, Netanyahu sotto pressione

Gli inviati di Trump avvertono il premier israeliano: “Non metta a rischio il cessate il fuoco”. Oggi in Israele il vicepresidente Vance. Il Qatar denuncia violazioni, Abu Mazen: "Hamas ostacolo alla pace". Macron: “Priorità assoluta agli aiuti umanitari”
mercoledì, 22 Ottobre 2025
2 minuti di lettura

La tregua a Gaza rimane appesa a un filo. Secondo il New York Times, la Casa Bianca teme che Benjamin Netanyahu possa rompere l’accordo di cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti. L’amministrazione Trump, che ha investito molto sul piano in più fasi per la stabilizzazione della Striscia, avrebbe intensificato i contatti con Israele per dissuadere il premier da una nuova offensiva. Ieri Jared Kushner e Steve Witkoff, inviati del presidente americano, hanno incontrato Netanyahu a Gerusalemme per invitarlo “a non intraprendere azioni che mettano a rischio la tregua”. “L’autodifesa è legittima, ma non deve compromettere il cessate il fuoco”, avrebbero detto i due emissari secondo Channel 12.

Fonti dell’ufficio del premier hanno definito “ottimo” il colloquio. Atteso a Tel Aviv anche il vicepresidente J.D. Vance, atteso per supervisionare l’attuazione dell’accordo e incontrare Netanyahu e il presidente Herzog. Intanto il capo dei servizi segreti egiziani, Hassan Rashad, è giunto in Israele per discutere con Netanyahu, il ministro della Difesa Katz e gli inviati americani del “day after” a Gaza, del rimpatrio delle salme e del futuro assetto del territorio. Sul fronte americano, da parte sua Donald Trump, su Truth Social, ha scritto che molti alleati degli Stati Uniti nella regione “si sono detti pronti a entrare a Gaza per raddrizzare Hamas”, ma di averli frenati “perché c’è ancora speranza che faccia la cosa giusta”. Ha tuttavia avvertito: “Se non lo farà, la fine di Hamas sarà rapida, furiosa e brutale”. Intanto, dal Golfo, l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani ha condannato le “continue violazioni israeliane” della tregua, ribadendo che “la questione palestinese non è terrorismo ma occupazione”. Dall’altro lato, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha accusato Hamas di essere “un ostacolo alla pace”. In un’intervista al Corriere della Sera ha annunciato che, durante la visita del 7 novembre in Italia, chiederà il riconoscimento dello Stato palestinese e ha ribadito che “le armi devono essere consegnate”. La Turchia, intanto, ha ottenuto il via libera di Israele per far uscire da Gaza 66 persone, tra cui 16 familiari di Ismail Haniye, ex leader di Hamas, e 40 cittadini turchi. Ankara rivendica il risultato come frutto del proprio ruolo di mediazione nei negoziati.

Hamas ridimensionata ma ancora attiva

Secondo fonti militari israeliane, Hamas avrebbe perso circa 20mila combattenti e il 90% della propria capacità missilistica, ma disporrebbe ancora di 10-20mila uomini armati. L’analista Shalom Ben Hanan, veterano dello Shin Bet, ha avvertito che “la minaccia non è immediata, ma il potenziale di Hamas resta intatto”. Dal cessate il fuoco del 10 ottobre, il ministero della Sanità di Gaza – controllato da Hamas – denuncia 87 morti per “fuoco diretto” israeliano. Nelle ultime 24 ore altri sette palestinesi sarebbero rimasti uccisi. Israele, da parte sua, ha restituito 165 corpi di prigionieri palestinesi in base all’accordo che prevede uno scambio proporzionale con i corpi degli ostaggi israeliani deceduti. Il leader politico di Hamas, Khalil al-Hayya, ha ribadito di voler consegnare “tutti i corpi degli ostaggi”, ma ha chiesto più tempo e macchinari pesanti per recuperarli sotto le macerie. L’ala militare del gruppo ha annunciato che consegnerà altri due corpi questa sera alle 21.

Gli aiuti ancora insufficienti

Nonostante la tregua, la crisi umanitaria resta drammatica. Il Programma Alimentare Mondiale (Wfp) segnala che il flusso di aiuti è ancora ben al di sotto del necessario: meno di mille camion sono entrati a Gaza dall’inizio della tregua, contro i 6.600 previsti. “Servono 2.000 tonnellate di cibo al giorno, e bisogna aprire tutti i valichi”, ha dichiarato il portavoce Abeer Etefa. Anche Emmanuel Macron, da Lubiana, ha chiesto la “riapertura immediata dei punti di accesso” come “urgenza assoluta” e l’adozione di una risoluzione Onu che definisca un quadro per la governance e la sicurezza del territorio. Dalla Slovenia, i leader dei Paesi Med9 hanno rivolto lo stesso appello a Israele. Sul fronte dei diritti umani, intanto, il Guardian ha riferito che almeno 135 corpi tra quelli rimpatriati provenivano dal campo di detenzione israeliano di Sde Teiman, nel deserto del Negev, dove sarebbero avvenuti episodi di tortura. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, i sacchi mortuari “riportano etichette scritte in ebraico che indicano la provenienza dal campo e i test del Dna effettuati su alcuni prigionieri”.

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